Julien (Guillame Canet), geologo sempre in giro per il mondo, è costretto a tornare in Francia dall’ex compagna: hanno rapito suo figlio, il piccolo Mathys, di appena sette anni. Ritrovarlo sarà per la (ex)coppia un banco di prova in grado di far riaffiorare vecchie ruggini e ricordi assopiti. Christian Carion porta al cinema un thriller familiare. La storia di Mio figlio mostra una coppia separata, costretta a riunirsi per via di un’orribile notizia: il piccolo di casa è scomparso. Questa tragedia sovverte gli equilibri e lascia emergere il lato più oscuro di ogni personaggio, così come le dinamiche affettive interne a un rapporto sentimentale perduto. Il padre è l’eroe dall’orgoglio ferito, risucchiato dai rimorsi a causa della sua assenza; la madre, in preda al panico, incolpa l’ex-compagno senza offrire alcun contributo concreto alla ricerca del figlio scomparso. Ma l’impostazione da film drammatico sfocia nel thriller con l’inizio delle indagini per la scomparsa di Mathys; indagini intricate, portate avanti non dalle istituzioni ma da un uomo dilaniato nel profondo, che si trasforma in una sorta di “giustiziere della notte”. E Guillame Canet è un ottimo protagonista, un padre guidato dall’ansia e dalla follia. Il film si svolge quasi tutto in interni, come se ci trovasse costantemente fuori dallo spazio e dal tempo, in attesa di ritrovare il bambino protagonista. L’oscurità, ovviamente, prevale. Settimane di ansia sono riprodotte nell’arco di un’ora e venti, che hanno il pregio di conservarne ogni attimo di tensione e apprensione. La lentezza dei momenti più drammatici, necessaria a contestualizzare sensazioni e umori, è compensata dalle parti action. Dopo i primi 45 minuti introduttivi, ricchi di flashback e richiami al passato, l’opera prende vita: tra capovolgimenti e tasselli da incastonare, macchine ribaltate e momenti lacrimosi, Mio figlio riesce nell’impresa di catturare l’attenzione del pubblico.