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Nirvana

17/10/2017 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Nirvana

Nirvana, la fantascienza di Gabriele Salvatores

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Per contestualizzare Nirvana occorre un po’ di cronistoria spiccia: tra gli anni ’50 e ’70 Philip K. Dick scrisse una serie di romanzi e racconti che reinventano il concetto di fantascienza in vigore sino a quel momento, a base di invasioni marziane e macchine del tempo malfunzionanti. Infarcì la sua fiction con una sana dose di paranoia, complottismo e dubbi, condendo il tutto con una non banale spolverata di filosofia. Tali opere rimasero nella penombra della “letteratura di serie-B” finché nel 1982 il suo romanzo Il cacciatore di androidi venne portato al cinema: Blade Runner diventa un caposaldo della fantascienza cinematografica, dettando nuovi standard sia sul piano visivo che su quello concettuale.


Dick morì d’infarto cardiaco prima che il film uscisse nelle sale, proprio mentre le sue opere erano in corso di rivalutazione da parte della critica. Lavori tanto seminali da dare origine a un intero sottogenere fantascientifico, il cyberpunk, che vede come padre ufficiale William Gibson ma di cui Dick è stato ampio precursore e la cui estetica si basa su quella mostrata nel film di Ridley Scott. Caratteristiche principali di questo movimento (letterario prima, cinematografico poi) sono a grandi linee: un futuro ipertecnologico, pessimistico, decadente e dominato da multinazionali tiranniche; hacker che sfruttano il mondo virtuale per sfuggire all’oppressione della realtà; la yakuza al servizio dei potenti come corpo armato non ufficiale. Negli anni diversi registi hanno portato al cinema questo mondo distopico, dal Terminator di James Cameron a i Wachowski con Matrix, da Paul Verhoeven con Robocop agli anime di Ghost in the shell. In Italia, abbiamo avuto Gabriele Salvatores con Nirvana. Ebbene sì: nel 1997 nel nostro paese, nel pieno dell’immobilità dei generi, qualcuno ha avuto il coraggio di produrre un film di fantascienza cyberpunk, un’anomalia nella matrice. I critici all’epoca hanno cercato di ricondurre tale anomalia a una «variazione del cinema autoriale» ma, rivisto oggi, Nirvana è un film in cui la nota autoriale è intrisa e dettata dagli stilemi del genere.


Christopher Lambert interpreta un programmatore di videogame, che lavora per la Okosama Starr. Un giorno si rende conto che il protagonista della sua ultima opera Nirvana (un Diego Abatantuono calibratissimo e grottesco) possiede una vera e propria coscienza e chiede di essere cancellato. Il programmatore quindi chiederà aiuto alle sue conoscienze nei bassifondi per arrivare nel database della Okosama Starr e cancellare la copia di backup del gioco.


Per essere un film di fantascienza italiana – un genere che il nostro paese ha sempre frequentato poco e il cui esponente più illustre risale al 1965, Terrore nello spazio di Mario Bava – e per di più con un ventennio sulle spalle, Nirvana fa ancora la sua gran figura. Non solo perché rappresenta uno stacco netto da tutte le produzioni dell’epoca, ma anche e soprattutto perché riesce a prendere tutti i cliché del genere, rimescolarli e metterli in scena addensati da una profonda italianità. Un po' il medesimo trucco che Gabriele Mainetti ha usato di recente nel suo Lo chiamavano Jeeg Robot: ha frullato tutti gli archetipi del genere supereroistico e li ha calati a Roma, radicandoli così tanto in profondità che a fine visione non è possibile immaginare la stessa storia svolgersi in nessun altra parte del globo. Gabriele Salvatores compie qualcosa di simile, vent’anni prima, con la sci-fi. Sostituisce la sua cara Milano con l’agglomerato del Nord – una versione made-in-Italy della megalopoli di Blade Runner, con la neve che cade al posto della pioggia – e in essa fa muovere tutto lo stuolo dei suoi attori feticcio (il meglio del cabaret italiano anni ’90). Per citarne alcuni: Claudio Bisio è un taxista/spacciatore dal volto tatuato; Gigio Alberti veste i panni di un chirurgo bio-organico; Paolo Rossi fa il “commentatore di droghe”; Silvio Orlando è il proprietario di un hotel malfamato. Persino Sergio Rubini, un ex-hacker i cui occhi sono sostituiti con due impianti cibernetici, sbraita sproloqui in barese contro le multinazionali: un personaggio talmente atipico e sopra le righe da strappare applausi a scena aperta. Perché la cosa più assurda è che questo mondo, questi personaggi surreali e grottesci, questi interpreti così fuori ruolo... sullo schermo funzionano alla grande.


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