Ci sono autori che lungo tutto un percorso cinematografico, breve o lungo che sia, fanno sempre lo stesso film. Magari ne cambiano qualche ingrediente, aggiustano il tiro, ne modificano il contesto o addirittura il genere, ma alla fine, sotto le mascherate apparenze, raccontano sempre la medesima storia. E poi ci sono registi che nel corso di una carriera (e nemmeno conclusa, ma ancora ben lungi dall’esaurirsi) riescono a dirigere circa 40 film a tema yakuza senza mai ripetersi mezza volta. Sono registi più unici che rari, anzi, tanto unici da ridursi a uno soltanto. Takashi Miike è uno di loro. Un qualsiasi spettatore che sia anche un minimo curioso di cinema e si affaccia all’abisso che si estende oltre l’atollo del mainstream, di sicuro conosce questo nome ed è molto probabile che abbia visto almeno una sua pellicola. Perché Miike è una vera macchina da film: ne confeziona una media di tre all’anno e ha all’attivo circa 80 lungometraggi in 25 anni di carriera. Ha iniziato dirigendo soprattutto film a tema yakuza, ma poi il suo cinema ha assunto via via una deriva a tratti iper-violenta e a tratti quasi surrealista. Ora queste due anime convivono in ogni suo film, calibrate ogni volta in una miscela diversa per regalare agli spettatori esperienze a dir poco originali e sopra le righe. Yakuza Apocalypse (film datato 2015 e distribuito solo di recente in Italia da Koch Media) è esattamente ciò che il titolo promette: un delirio di personaggi e situazioni al limite del trash. Kamiura (Lily Franky) è un capo-yakuza-vampiro che si è ribellato al “sindacato internazionale dei criminali”. Quando riceve un ultimatum di tornare nei ranghi, Kamiura si rifiuta e paga con la vita. Prima di morire però trasforma il suo braccio destro Kageyama (Hayato Ichihara) in un vampiro in cerca di vendetta per il suo capo. Dal punto di vista narrativo Yakuza Apocalypse sembra l’adattamento live-action di un manga da quanto la storia è densa, e pare appoggiarsi su una mitologia ben più vasta, ma così non è. Il film è una sorta di auto-adattamento che pesca a piene mani assurde soluzioni “da fumetto”, che normalmente al cinema non funzionerebbero mai... e le fa funzionare. Un esempio è la parata di strampalati killer, che in una realtà anche solo vagamente verosimile non avrebbero senso di esistere: una specie di colono americano che si trascina dietro una cassa con dentro un gigantesco fucile (e che molto deve al Django di Sergio Corbucci), un Kappa (creatura del folklore giapponese con guscio di tartaruga e becco da anatra) e un tizio con addosso un costume da rana, abilissimo nella lotta corpo-a-corpo ma che deve essere aiutato da due uomini a scendere una rampa di scale, nemmeno fosse un anziano fuggito da qualche ospizio. Il film è un delirio sia visivo sia narrativo, ma inscenato con una perizia tecnica che solo i grandi maestri posseggono. Ogni snodo della storia è un pretesto per trovare la soluzione meno prevedibile che lo spettatore possa immaginare. Da questo punto di vista sembra che Takashi Miike giochi con il suo pubblico prendendolo in giro senza alcun ritegno, alzando l’asticella della follia ogni volta che lo ritiene necessario, il che vuol dire circa a ogni cambio di scena. La verà genialità risiede però in come tutto ciò avviene durante lo svolgersi del film: perché esso riesce nel difficile compito di non scivolare mai nel ridicolo, ma resta per tutta la sua durata in equilibrio sull’orlo del trash più becero. Lo spettatore non ride del film, ma ride con il film. Perché il solo modo per riuscire a fruire della folle messa in scena di Miike è quella di mettersi sul suo stesso piano e lasciarsi trasportare senza porsi troppe domande alla vana ricerca di una logica coerente che non esiste.