«Ero sulla USS Indianapolis quando un sommergibile giapponese ci mise due siluri dentro la pancia. Stavamo tornando dall'isola di Tinian a Leyte, avevamo portato la bomba, quella che scoppiò a Hiroshima. Millecento uomini finirono in mare. La nave affondò in dodici minuti. Il primo squalo si fece vivo dopo una mezz'ora, un tigre, di quattro metri. Sai da cosa lo capisci quando sei in acqua? Dalla distanza fra la pinna dorsale e la coda. Noi non lo sapevamo, ma la nostra missione era talmente segreta che non era stato neanche lanciato l'S.O.S! Per una settimana non dissero che eravamo spariti». Per chi non lo sapesse questo è uno stralcio del {a href='https://youtu.be/ff6fTKW5ADw'}monologo{/a} recitato da Robert Shaw ne Lo Squalo di Steven Spielberg, prima che inizi il terzo atto. Una tragedia storica, messa in bocca a un personaggio che forse, sino a quel punto del film, risultava essere troppo macchiettistico: con questo monologo scritto da John Milius (uno che ha sceneggiato la storia del cinema con film come Apocalypse Now, Conan il Barbaro, Un mercoledì da leoni) assume una tridimensionalità senza pari. Un momento di cinema allo stato puro, una lezione di recitazione da imparare a memoria. In appena quattro minuti vengono condensate e sparate addosso allo spettatore emozioni che vanno dalla paura all’eroismo, dalla mancanza di speranza al senso di tragedia e impotenza. Tutto ciò che USS Indianapolis non riesce a trasmettere in due ore di pellicola. Se è vero che la bellezza è un fattore soggettivo, allora si può asserire che non esistono film brutti in senso assoluto, ma solo film sbagliati. Per tale postulato anche il più becero e raffazzonato b-movie può contenere un qualche spunto interessante, che sia un dialogo, un’inquadratura o una trovata qualsiasi. E, sempre secondo lo stesso principio, ci possono essere film che sbagliano il tono della storia, il focus su un personaggio, l’impostazione di qualche tecnicismo. Sono pochi i film che riescono a sbagliare più di un elemento e ancor più rari quelli che riescono a sbagliare quasi tutti gli elementi. Quando ciò avviene la teoria di cui sopra vacilla pericolosamente: USS Indianapolis l’ha fatta vacillare al punto da inabissarla come l’omonimo incrociatore di cui racconta la sfortunata storia. Perché il film è completamente sbagliato sotto ogni punto di vista. Seppur ambizioso, visivamente è appena un gradino sopra le produzioni Asylum, con una fotografia da serie tv anni ’90 e effetti speciali approssimativi, che affossano anche le poche scene che dovrebbero apparire spettacolari, come l’affondamento della nave. Poi i toni: dove la pellicola dovrebbe essere eroica appare legnosa e impacciata; la rappresentazione della tragedia umana in mare aperto assume contorni tanto grotteschi da rasentare il camp. Ma il problema principale risiede nella scrittura, non tanto per i luoghi comuni e i cliché (il marinaio innamorato, il conflitto tra bianchi e neri dello stesso equipaggio, il Capitano dal cuore d’oro e il Tenente capace di usare solo le minacce) ma, piuttosto, perché tutto viene raccontato con una velocità che non lascia il tempo per affezionarsi a nessuno protagonista. Tutto accade troppo in fretta e senza concentrarsi su nulla: né sui personaggi, né sull’affondamento, né sulla tragedia in mare, né sul processo che ne segue. Si ha la sensazione di guardare il riassunto di un film che duri almeno il doppio del minutaggio. Per chiudere il cerchio iniziato in apertura, John Milius dichiarò in un’intervista: «A me interessa il potere del raccontare le storie. Mi interessa l’antica arte di Omero di raccontare la guerra di Troia ancora ed ancora ed ancora, fin quando qualcuno che non sa neanche chi è Omero la trascrive». Ed è proprio questa capacità di raccontare una storia che manca a un film come USS Indianapolis.