Kabul, Afghanistan. Mentre tutto intorno cadono le bombe, in una casa fatiscente una giovane donna afgana (Golshifteh Farahani) si prende cura del marito (Hamid Djavadan), di molto più anziano di lei, in coma vegetativo dopo una ferita riportata in guerra. Di fronte all’immobilità dell’uomo, la ragazza – rimasta sola con i due bambini – inizia a confessare poco per volta al marito segreti e sentimenti da sempre tenuti nascosti, facendo del compagno il proprio “sang-e sabur”, la pietra di pazienza, amuleto della tradizione persiana, dalla funzione catartica. Tra macerie e sassi di ogni genere, nella terra arida d’Afghanistan, è concesso nella vita ad ogni persona una sola pietra-amuleto, da tenere sempre con sé e sulla quale riversare sogni, speranze, dolori, sofferenze e peccati, finchè questa non si infrange. Ma se è un marito soldato a diventare una pietra paziente, allora il flusso di pensieri di una donna diventa un dialogo silenzioso fra la sua voce e il silenzio infermo del consorte, costretto all’immobilità e all’ascolto di colei che mai in anni di matrimonio ha desiderato - o saputo - ascoltare. Primo scrittore afghano a vincere il prestigioso Prix Goncourt in Francia, Atiq Rahimi trae dal suo romanzo omonimo un film d’esordio duro come la pietra del titolo ma sensuale come una lettera d’amore: una dichiarazione di libertà, un omaggio al mondo silenzioso e alle frasi non dette delle donne afghane e di tutte le donne a cui non è ancora concesso di parlare. Abbattendo la convinzione che la guerra sia solo un affare da uomini, Rahimi, afghano di nascita e francese d’adozione, lontano da casa ormai da anni, racconta - con uno sguardo maschile unico per sensibilità e purezza - un intero popolo di donne apparentemente invisibili che, con le loro vesti integralmente coprenti, popolano come fantasmi le strade desertificate dalle bombe e dagli spari. La protagonista a cui il regista affida la propria storia non ha nome ma, attraverso il magnetico volto di Golshifteh Farahani – attrice che già aveva ammaliato Ridley Scott in Nessuna verità e fatto sognare in Pollo alle prugne di Marjanne Satrapi -, Rahimi solleva il pesante velo dell’anonimato dal viso di migliaia di donne relegate alle mura casalinghe come mogli e madri, costrette a patire la guerra non come gloriosi soldati ma come prigionieri, destinate a restare figure senza occhi davanti ad un intero mondo che non ne comprende né conosce l’identità. Ma proprio da quel mondo aguzzino di uomini arriva la salvezza: una ferita provvidenziale che ribalta l’innaturale corso delle cose e, condannato all’infermità e all’immobilità, è l’uomo che deve ascoltare, per la prima volta, la voce di sua moglie. Tra sussurri, lacrime e sussulti di rabbia repressa, prendendosi devotamente cura del marito eroe di guerra e al contempo disprezzandolo come fonte di dolore, in mezzo al fiume di pensieri tramutati in parole lo spettatore sente crescere la ribellione di una donna che lentamente si riappropria di tutto quello che la crudeltà maschile, la povertà e la guerra le hanno tolto: la dignità, il coraggio, i sogni, la bellezza, e da ultimo, l’amore. Da un decennio a questa parte i conflitti in Medio Oriente e in Afghanistan hanno condotto a facile successo, anche in Europa, un’inarrestabile onda di romanzi e film ad opera di autori locali. Il consenso di lettori e spettatori - che le classifiche letterarie e le stime dei box office riportano fedelmente – rende conto della fascinazione che il tema dell’orgoglio e del candore dei vinti ha sul pubblico, tanto più quando protagonisti delle narrazioni sono minoranze o soggetti deboli, come le donne o i bambini. Ad uno sguardo superficiale il film d’esordio di Atiq Rahimi può sembrare una pellicola perfettamente ascritta in tale filone: la storia di una donna, nascosta e svelata poco per volta allo spettatore da uno stile di regia lirico e sentimentale, capace di fondere con il patetismo delle proprie origini, la classe e l’eleganza formale di un’appresa cinematografia francese. Tuttavia classificare Come pietra paziente in quel genere di film filo-femministi, debolmente melodrammatici e parecchio modaioli, sulla scia di pellicole come Il cacciatore di aquiloni o Viaggio a Kandahar, vorrebbe dire ignorare sia l’eccezionale poeticità del soggetto sia l’originalità dell’idea drammaturgica, a metà fra la trasposizione di un romanzo diaristico e un monologo, una lunga confessione che la protagonista riversa sul marito e, di conseguenza, sullo spettatore, un racconto a voce unica di un’esistenza velata che, lentamente, emerge a nuova vita.