A quattro anni dall'uscita nelle sale di Gomorra, Matteo Garrone torna a raccontare Napoli in una pellicola macchiettistica e tragicomica, che racconta una delle realtà più dolorose del sud: la sottocultura del basso ceto. Tra l'utopia televisiva e il mito della celebrità, Garrone scrive, con Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci e Ugo Chiti, un moderno dramma della celebrità, una replica in versione aggiornata di Bellissima di Luchino Visconti. Luciano (Aniello Arena) vive a Napoli con la moglie e i figli e gestisce una pescheria deliziando tutto il quartiere con il suo carattere spigliato e le sue esibizioni “da strada”. Convinti che Luciano sia dotato di un talento per lo spettacolo, i familiari e gli amici lo convincono a partecipare alle selezioni per Il Grande Fratello. Una volta vista balenatagli davanti agli occhi l'utopia del successo, Luciano inizia ad aspettare ossessivamente la risposta al suo provino, piegando gradualmente a questa attesa tutta la propria vita e le sue abitudini. Più ancora che in Gomorra, opera incerta che ha saputo in parte trasporre l'esperimento letterario di Roberto Saviano, in Reality Matteo Garrone - servendosi del prezioso aiuto di Gaudioso, già collaboratore di Daniele Ciprì per È stato il figlio - mostra un ritratto spietato di Napoli, attraverso uno dei suoi aspetti più deprimenti: la sottocultura nata dalla televisione commerciale e da uno dei suoi peggiori prodotti, il reality show. Una città pittoresca, cinica ed esagerata, portata in scena attraverso un cast credibile e interessante che ruota attorno al protagonista, Aniello Arena - primo attore della compagnia dei detenuti del carcere La Fortezza di Volterra. La scrittura del film, giocata sull'attesa del protagonista, su un gioco di incubi e ossessioni, beneficia dello sguardo familiare e confidenziale del regista su Napoli. L'intera pellicola si costruisce sul vagare di Luciano per una città che appare ora gigantesca, ora deserta restituendo un'impressione continua di spaesamento. Un merito che Garrone possiede è quello di studiare, insieme a valenti collaboratori, sceneggiature strutturalmente originali, composizioni di vuoti e pieni calibrate a puntino, con un ritmo sempre moderno e serrato. Il punto debole, una volta ancora dopo Gomorra, restano le intenzioni, il bagaglio di convinzioni intellettuali, politiche e sociali cui si lega la necessità, altrimenti inspiegabile, di fare un film sulla cultura del reality. A chi glielo chieda, Garrone risponde che non si tratta di un film contro la televisione. Eppure proprio negli anni in cui, insieme ad un'era politica, sembra tramontare anche la deprimente stagione di importazione dall'estero di format scadenti, la riflessione di Garrone appare come una tardiva e vezzosa scrollata di spalle del cinema alla televisione. Invece di prendere atto del cambio di tendenza del pubblico rispetto ai reality show - genere che le statistiche mostrano in balia di un forte calo di audience - Garrone preferisce insistere a mostrare con atteggiamento intellettualistico i guasti della società e lo squarcio culturale del medio/basso ceto rispetto al resto della cultura nazionale. L'opera meta-linguistica concepita non arriva ad essere una riflessione sui media e nemmeno un giudizio troppo innovativo sul condizionamento televisivo, ma si limita a rimarcare certi motivi ricorrenti, come l'ossessione per la celebrità e la fascinazione pericolosa della tv sul pubblico più condizionabile. Reality tradisce nelle intenzioni una certa aspettativa da parte del suo regista. Tra scelte di cast, collaboratori, tecnici (degna di nota è la colonna sonora di Alexandre Desplat), il regista romano dà fondo a tutte le energie creative e pubblicitarie a sua disposizione, realizzando una pellicola ancora localistica, troppo legata al contesto provinciale peninsulare, accurato per molti aspetti ma immaturo per altri, troppo acerbo per definirsi nell'ambito autoriale cui il regista inevitabilmente punta.