Già regista di Step Up 2 e Step up 3D, Jon Chu si lascia irretire di nuovo dal mondo musicale e spettacolare legato principalmente all'adolescenza. Con Justin Bieber: never say never, il regista californiano si mette al servizio della popstar più amata dagli adolescenti di questa generazione, richiando non poco. Justin Bieber - come la maggior parte dei teen idol - è tanto amato, quanto odiato. Persino in Glee, fortunata serie in cui un gruppo di liceali canta di tutto, viene sbeffeggiato e scimmiottato. Eppure si tratta della stessa persona che, ancora in pubertà, riesce a fare il tutto esaurito al Madison Square Garden. Justin Bieber: never say never, racconta la storia della precoce star. Dai primi passi, al grande successo, passando attraverso gli anni (turbolenti?) delle performance in strada. Attraverso video di repertorio, riprese private e interviste, si cerca di delineare il ritratto di questa superstar sedicenne, lanciata da youtube e sostenuta da Usher. Ad una prima occhiata, Never Say Never sembra essere l'ennesimo film adolescenziale sul nuovo Sogno Americano: diventare una star. Come già visto in Saranno Famosi, Le ragazze del Coyote Ugly, Save the last dance e altri cloni digitali, anche in questo film sembra esserci la parabola del ragazzo di periferia che sogna il grande pubblico. Quello che distingue il film di Jon Chu da tutti i suoi predecessori è la consapevolezza extradiegetica dello spettatore. Chiunque si avvicini a questa pellicola, sa già che quel ragazzino di dieci anni diventerà una star mondiale. Mancando totalmente la tensione del «chissà se ce la farà», lo spettatore ha bisogno di qualche altro espediente per creare un legame empatico. Purtroppo Jon Chu sceglie la via più facile, ovvero quella di ignorare il pubblico. Il più grande limite di questo film è, senza dubbio, la scelta di rivolgersi agli spettatori che già amano Bieber. I continui primi piani del giovane cantante, le sue movenze e i suoi ricordi, sono a beneficio di un gruppo elitario, sebbene piuttosto corposo, di fan. Allo spettatore medio, fondamentalmente, la pellicola non interessa. A volte, addirittura, annoia. Anche per alcune scelte registiche, a metà strada tra il videoclip di MTV e le riprese/spia del Grande Fratello. Bisognerebbe poi fare un discorso a parte su quanto possa essere inquietante girare un documentario biografico su un ragazzo di appena sedici anni; grazie al cielo si tratta semplicemente di marketing e non (solo) di puro narcisismo. Non a caso il film - così voglioso di mostrare il lato intimo del cantante - segue anche il dietro le quinte del concerto al Madison Square Garden. Un po' come accadeva in Shine a Light; ma quelli erano i Rolling Stones e a spiarli era Martin Scorsese.