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Hit Man

14/02/2011 12:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

Hit Man

Un piccolo gangster indaga sull’assassinio del fratello, individuerà i colpevoli dell’esecuzione nei componenti di un’insospettabile banda criminale...

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Un piccolo gangster indaga sull’assassinio del fratello, individuerà i colpevoli dell’esecuzione nei componenti di un’insospettabile banda criminale. Il fenomeno commerciale meglio conosciuto come blaxploitation ha spesso mosso passi importanti dai rifacimenti di successi “white”. Dall’inconfondibile Blacula al capostipite Black Caesar, fino ad arrivare a Cool Breeze. Identico destino, creativo prima e produttivo poi, è toccato in sorte a Hit Man, remake colored di Get Carter così come i primi tre lo erano, rispettivamente, di Dracula, Piccolo Cesare e Giungla d’asfalto. Trucchi e tecniche finalizzati ad un successo assicurato appartenenti ad un’oliata macchina da cinema, manovrata da dietro le quinte dai bianchi, ma il cui prodotto era inesorabilmente destinato ad un pubblico esclusivamente di colore; con buona pace delle derive rivoluzionarie e “neropanteresche” del precursore Sweet Sweetback’s Baadassssss Song diretto da Melvin Van Peebles.


Chiusa parentesi torniamo ad occuparci di ciò che realmente ci interessa, ovvero la pellicola diretta nel 1972 da George Armitage, dichiarato rifacimento del film interpretato, appena un anno prima, da Michael Caine e diretto da Mike Hodges. L’operazione tutta, pur affidandosi a naturali e comprensibili modifiche tanto fotografiche (dalla piovigginosa periferia di Newcastle si passa a ben più assolate location) quanto costumistiche (il look riconoscibilmente afroamericano degli interpreti), si dimostra, nei confronti dell’originale, pedissequamente fedele: vuoi nella trama, vuoi per alcuni momenti prossimi all’omaggio. Ad esserne stravolto è l’umore di superficie, decisamente più sfrontato, pulp nell’accezione seventies del termine e scosso dalla consueto sottofondo funky, musicale marchio di fabbrica di ogni episodio blaxploitation che si rispetti: tutt’altro accompagnamento, quindi, rispetto all’umoristica e vendicativa calma british associata al celebre tema di Roy Budd. Alterazioni necessarie affinché, come accennato poco righe fa, un successo prettamente europeo possa venir convertito in un clone altrettanto riuscito da destinare ad un pubblico diametralmente opposto a quello per il quale era stato originariamente pensato.


Tutto, naturalmente, si regge sulla facile ma al tempo stesso efficace dicotomia che vuole l’eroe di colore contrapposto all’antagonista bianco: tanto aggressivo, sincero e fidelizzato con lo spettatore il primo, quanto scorretto, doppiogiochista e matematicamente avverso all’occhio di chi guarda il secondo. George Armitage si dimostra regista dalla mano sicura, regala alla memoria degli appassionati una serie di sequenze al fulmicotone (la violenta interruzione della partita a squash su tutte) e, in chiusura di film, omaggia con la corretta dose di rispetto il collega Mike Hodges, ricalcando l’epilogo Get Carter attraverso una chiosa dall’ambientazione marittima. Poco di cui stupirsi. L’occhio dietro la macchina da presa, d’altronde, è lo stesso che nel 1976 alzerà il sipario sul tema del reduce dal Vietnam: anticipando di sei anni, con Squadra d’assalto antirapina, un colosso come Rambo.


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