Un film classico. Una commedia romantica. Mangia Prega Ama è la seconda fatica cinematografica di Ryan Murphy, già noto sul piccolo schermo per le sagaci serie televisive Nip/Tuck e Glee e per Correndo con le forbici in mano, esordio alla regia nel segno del glamour e dell’umorismo nero. Sceneggiato a quattro mani da Murphy e da Jennifer Salt (attrice in pensione ancora affascinante) che ne hanno curato l’adattamento, il film prende le mosse, per poi ricalcarle fedelmente, dal libro di Elizabeth Gilbert Eat, Pray, Love: One Woman's Search for Everything across Italy, India and Indonesia, divenuto un bestseller a livello internazionale. Prodotto da Gardner e Plan B di Brad Pitt, nel cast Billy Crudrup nel ruolo dell’ex-marito, Richard Jenkins in quello di iniziatore alla spiritualità, James Franco come giovane amante e Viola Davis in quello di Delia, la migliore amica della protagonista. È la cronaca di una rinascita, che mette al centro i desideri e le esigenze di una donna moderna, realizzata, sposata e tristissima. Nel buio della sua stanza newyorkese, in una serata di pioggia autunnale, la bella Liz (Julia Roberts) si ritrova in lacrime sul pavimento, a piangere delle proprie insoddisfazioni: è giunto il momento di ridefinire la propria vita ed i propri bisogni. Liz riflette e raccoglie le forze. Dopo un amaro divorzio, si concede un anno sabbatico per intraprendere in solitudine un viaggio intorno al mondo attraversando tre incantevoli Paesi: Italia, India, Indonesia. Ma all’esotismo di questo on the road si affianca un altro percorso, quello interiore di un’anima inquieta alla ricerca personalissima di verità e felicità. Se in Italia la Elizabeth di Julia Roberts riscoprirà in un trionfo dei sensi il gusto gioioso per la buona tavola e il valore dell’amicizia nelle promenade con Luca Argentero, in India praticherà la meditazione in un Ashram, anelando alla pace interiore e a Bali giungerà per amare ed essere riamata dal tenero cosmopolita Felipe (Javier Bardem), convinta da uno sdentato sciamano senza tempo che innamorarsi non significherà per lei disgregare un equilibrio così faticosamente raggiunto. Alla fine ciò che conta è ritrovare l’appetito per la vita. Miss Pretty Woman è qui più deliziosa che mai: è una donna matura che ingrassa, sorride e incanta come sempre. Impara l’indulgenza, disegnando quella che definisce una fisica dell’anima, dominata com’è da un continuo desiderio di confronto e scambio con gli altri. Impossibile non identificarsi. La gamma delle emozioni viene tradotta in tutte le sue possibili variazioni (felicità, tristezza, sollievo, coraggio, rimpianto ) e la Roberts tiene insieme tutte le corde con la solita disinvoltura. Lezioso a tratti, il regista - che va snocciolando macchiette e stereotipi di ogni sorta (l’italiano esperto del dolce far niente e del gesticolio alla maniera di un direttore d’orchestra, il trittico spaghetti-pizza-sesso) - confeziona un prodotto tutto sommato conforme al genere. Fil rouge il commento fuori campo di Liz che intreccia costantemente la voce del film a quella del romanzo, accentuando il tono di diario-confessione che più lo caratterizza e favorendo il continuo dialogo tra le due opere. L’opera, nell’ansia di condividere l’esperienza di crescita ed illuminazione interiore di cui tratta, appare talvolta annacquata, il ritmo si allenta e l’equilibrio si perde. Inedite le passeggiate per i vicoli di Forcella, le mille pose della protagonista che succhia spaghetti al pomodoro nella capitale, la sfrenata sensualità delle portate che si stagliano appetitose sotto i nostri occhi. Curare un saggio antropologico non è tra le intenzioni del regista, ma la frenesia inquinata e variopinta dell’India con la mostra dei volti e delle stoffe preziose che si accumulano nell’inquadratura, così come la spensieratezza nostrana, la natura lussureggiante dell’Indonesia e le pedalate in bicicletta a Bali, rendono il viaggio visivamente interessante grazie anche ad una fotografia vivace e patinata quanto basta. Un’ultima menzione per la colonna sonora: la nostalgica Better Days di Eddie Vedder. Una redenzione dell’Io in tre atti. E il tre, si sa, è un numero perfetto.