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Una doppia verità

18/05/2017 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Una doppia verità

La verità non esiste: è soggettiva e cambia a seconda del punto di vista sia di chi la racconta

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La verità non esiste. È soggettiva e cambia sia a seconda del punto di vista sia di chi la racconta, sia di chi ascolta. La verità non è altro che una bugia raccontata in maniera convincente. Questo principio vale per chiunque e in qualsiasi luogo, persino all’interno dell’aula di un tribunale, dove il concetto stesso di verità dovrebbe venir eletto a principio assoluto e imprescindibile. E invece anche lì è sporco e volubile. Sembra essere questa la morale che Courtney Hunt (già autrice e regista dell’ottimo noir Frozen River - Fiume di ghiaccio) vuole impartire agli spettatori con il suo ultimo film, Una doppia verità.


Richard Ramsey (Keanu Reeves), amico di famiglia, e l’avvocato difensore dell’adolescente Mike Lassiter (Gabriel Basso), accusato di aver assassinato suo padre (Jim Belushi). Le prove a suo carico sono schiaccianti: ci sono impronte digitali sopra l’arma del delitto e una confessione volontaria. A complicare ulteriormente le cose vi è il mutismo di Mike, che dopo l’ammissione di omicidio si è chiuso in un ostinato silenzio e si rifiuta di collaborare persino con il proprio avvocato.


Il film si apre come un noir, con la voce fuori campo di Keanu Reeves su una serie di inquadrature statiche e magistralmente fotografate che affrescano il contesto in cui si svolgerà la vicenda: una Louisiana (la medesima di True Detective di cui, questo prologo, ne riprende diverse sfumature) attanagliata da un caldo umido e asfissiante che pare voglia annichilire sin da subito i protagonisti. Poi lo stacco e l’azione si sposta all’interno di un’aula di tribunale e lì resta per la successiva ora e mezza. La sola evasione che viene concessa è tramite i flashback che ricostruiscono i fatti narrati dai testimoni chiamati a raccontare la propria versione. Il film si dipana in due filoni narrativi paralleli e sovrapposti, nessuno dei quali lascia scampo ai personaggi, stritolati dalla morsa opprimente della verità che cerca di venire a galla. Da una parte il processo incalzante, i continui colpi mandati a segno dall’accusa, la difesa di Keanu Reeves che non sa dove andare a parare e cerca di prendere tempo incassando il più possibile «come Muhammad Ali contro Foreman»; dall’altra i ricordi che affiorano lentamente, quasi centellinati, disegnando un quadro che ben si distanzia dall’immagine canonica della famiglia borghese americana. Pian piano si insinuano disagi troppo a lungo taciuti, insulti, violenze, morbosità. In questo idilliaco quadro, che progressivamente si sgretola sotto gli occhi dello spettatore, un plauso d’onore va alla prova attoriale di Jim Belushi. In questo film abbandona la sua zona di comfort di attore da commedia per misurarsi con un personaggio allo stesso tempo terribile eppure affascinante, che è il vero cuore pulsante della vicenda, arricchendolo con una serie di sfumature che vanno ad assottigliare ancor di più il confine della verità. «Ho voluto lavorare a un processo in cui, per qualche motivo, ognuno aveva qualche forte motivazione per mentire» ha dichiarato Alan Dershowitz, avvocato e teorico di diritto, che ha collaborato attivamente anche alla stesura della sceneggiatura. A fine visione questo concetto sarà lampante e sublime.


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