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Il permesso - 48 ore fuori

29/03/2017 11:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

Il permesso - 48 ore fuori

Amendola torna alla regia con un film di genere

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Donato (Luca Argentero) è un ex pugile innamorato, Luigi (Claudio Amendola) è un padre di famiglia emulato da suo figlio, Angelo (Giacomo Ferrara) è un orfano di borgata e Rossana (Valentina Bellè) una bella, ricca e sfrontata. Persone così diverse sono accomunate da una sola cosa: la detenzione. Roma, bella e dannata, fa da sfondo a queste vite che da anni ormai sono chiuse in gabbia. Nei giorni vissuti dietro le sbarre i quattro protagonisti hanno covato rancori, passioni e vendette con cui dovranno fare i conti una volta ottenuto un permesso d’uscita di 48 ore.


Il permesso - 48 ore fuori è la seconda opera da regista per Claudio Amendola che, dopo aver esordito con La mossa del pinguino, si mette alla prova con un film di genere che affronta il tema della detenzione. Un secondo esordio, per certi versi, poiché Amendola per la prima volta si autodirige; e per farlo sceglie la sua personale “comfort zone”, trattando tematiche inerenti all’azione e al crimine che, negli anni della sua lunga carriera, l’hanno visto protagonista. L’atmosfera è un po’ la stessa che si respirava in Suburra, forse perché anche Il permesso - 48 ore fuori è tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo (che ha collaborato anche alla sceneggiatura). Viene fuori un film a episodi, con l’azzardo Luca Argentero, per la prima volta in un ruolo con molta azione e pochi dialoghi, la scoperta di Valentina Bellè sul grande schermo (dopo averla già vista in tv) e la riconferma di Giacomo Ferrara che, dopo il film con Stefano Sollima, torna a interpretare un giovane di borgata.


Quattro storie danno vita a un ritratto fedele e non forzato della criminalità romana, che non sempre nasce dal basso. In quest’opera troviamo un orfano come Angelo ma anche una ragazza della Roma bene; chi avrebbe una bella famiglia ma non può vederla sbocciare; un ex lottatore come Donato, figlio del crimine e costretto a sporcarsi nuovamente le mani. Ritratti di vita possibili, archetipi reali di persone sconvolte dalla detenzione ma che non hanno perso la voglia di rimettersi in gioco. A qualsiasi costo. Questa bramosia di riconquista è tangibile anche nella regia: frenetica, dinamica, piena di stacchi action che aggrediscono lo spettatore per catapultarlo in realtà ignote che si conoscono, solo in parte, dalla cronaca. Una crudezza di base che, però, non rinuncia al sentimento: parecchie sono le scene d’amore e d’affetto; un’emozione pura, senza fronzoli, che viene restituita attraverso piccoli gesti e attimi di normalità. Come guardare un giardino nella notte per capire che niente è perduto. Nonostante gli errori di una vita, c’è sempre l’occasione per ripartire e ricominciare. Di sbagli, Claudio Amendola, alla regia, ne ha fatti pochi presentando nell’arco di pochi anni prodotti credibili e godibili. Ha avuto, finora, l’umiltà di confrontarsi con due generi a lui congeniali per ridurre al minimo i rischi. In conferenza stampa ha più volte ribadito: «Fare il regista mi diverte moltissimo, spero di poter raccontare storie sempre nuove». Il futuro, quindi, è da scrivere. Anzi, da girare. Chissà se sceglierà di cimentarsi con qualcosa meno nelle sue corde. D’altronde un regista dovrebbe essere pronto a tutto.


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