Con un ritardo di quattro anni, dopo aver irretito una delle vetrine più snob del panorama cinematografico mondiale, quella di "Un Certain Regard" del Festival di Cannes, arriva in Italia il film d’esordio di Steve McQueen, Hunger, trainato dalle grandi capacità artistiche del regista britannico, dal talento di uno degli attori più in vista del momento, Michael Fassbender, e dal successo di critica di Shame. Carcere di Long Kesh, Irlanda del Nord. Anno 1981. I detenuti repubblicani, privati del loro status di prigionieri politici, diedero il via ad una serie di rivolte. La prima, la “protesta delle coperte”, si palesava attraverso il rifiuto delle divise dei detenuti. I carcerati, privati dei loro abiti civili, e contrari ad una qualunque uniforme, si coprivano solo con delle coperte. La brutalità dei secondini – che aggredivano i prigionieri nel bagno – spinse i detenuti ad attivare un’altra rivolta, la “protesta dello sporco”, ovvero l'espletamento dei propri bisogni all'interno delle celle, spalmando feci e urine lungo le pareti. È da qui che la pellicola prende le mosse: Davey Gillen (Brian Milligan) è un giovane repubblicano appena arrestato che, intimorito ma fiero, rinuncia all’uniforme carceraria. Il suo compagno di cella, Gerry Campbell (Liam McMahon), lo introduce nella rete sotterranea di comunicazioni e ordini. Ben presto Davey comincia a capire come mandare e ricevere messaggi e indicazioni, da riportare poi a Bobby Sands (Michael Fassbender), leader del movimento. Mentre il governo, guidato da Margareth Thatcher, rifiuta di scendere a compromessi, Sands decide di iniziare lo sciopero della fame. Steve McQueen dimostra di possedere una strabiliante consapevolezza del mezzo cinematografico: la macchina da presa si muove sicura e agile, una cognizione che passa attraverso la capacità di guidare (e imbrogliare) lo spettatore. Il regista conduce lo spettatore lungo un sentiero, per poi svoltare bruscamente su un’altra via. Ci vuole più di mezz’ora affinché il protagonista appaia sulla scena e la macchina da presa si focalizzi su di lui, e non più sui comprimari che gli gravitano intorno. Eppure, quando il repubblicano giunge sulla scena, l'obiettivo non lo perde più di vista, violentando la sua immagine, insinuandosi lungo zone d’ombra e confini inesplorati. È il corpo dell'attore tedesco - di madre irlandese, discendente di un illustre indipendentista - il vero protagonista del film, proprio come avverrà con il successivo Shame. Ma, se in quest’ultimo il corpo veniva visto come prigione carnale, la cui tirannia impediva al protagonista di vivere una vita vera, in Hunger la statuaria fisicità di Fassbender è utilizzata come arma politica, come limite ultimo da superare per essere se stessi, estrema risorsa per raggiungere quella libertà che tutti i personaggi di McQueen sembrano anelare più della vita stessa. Ed ecco allora che il regista insiste senza pudori sulla nudità corporea, sulle ossa sporgenti, sulle piaghe da decubito: un cristologico Michael Fassbender porta impresse sulla carne le stigmate della sofferenza. Come un martire, Bobby Sands rinuncia del tutto al marchio visibile della propria individualità e si reifica, diventa oggetto di lotta, allo stesso modo in cui potrebbe esserlo uno spada, un sasso, una pistola. Con i toni freddi e distaccati che caratterizzano l’estetica di McQueen, Hunger diventa il saggio spietato e perturbante di una dimensione ostile, quella dei H-Block di Long Kesh, dove gli esseri umani combattevano per il diritto inalienabile alla libertà con tutti i (pochi) mezzi a disposizione. Eppure sembra che il regista non se la senta di schierarsi: ciò che emerge è la messa in scena di un’umanità spaccata tra la propria individualità e il dovere di un’appartenenza sociale. Se Bobby Sands rinuncia alla vita per via del ruolo di capo della rivolta, dall’altra McQueen non risparmia l’immagine di secondini schiacciati dalle proprie responsabilità. Terribilmente eloquente la scena in cui i prigionieri dissidenti vengono picchiati e umiliati da perquisizioni corporali brutali, e la macchina da presa, invece di insistere sull'esplicita violenza, si sofferma sulle lacrime disperate di un secondino sconvolto, restituendo allo spettatore l'insensatezza di una violenza inumana, che si insinua nella retina e rimane a galleggiare nelle coscienze. Proprio nella mancata cifra emotiva va ricercato l’elemento di maggior pregnanza del film: il regista non cerca facili pietismi, né forza lo spettatore ad entrare in empatia con una fazione piuttosto che con un’altra. Non c’è compassione in questa narrazione distaccata e straniante, fatta di lunghi piani sequenza e dialoghi ridotti all'osso. Una diegesi che si perde lungo i dettagli iconografici di una ciclicità estenuante: la pulizia del blocco, le visite dei congiunti, i monologhi monocordi della Tatcher alla radio. Forte e sconvolgente in alcune sequenze di prigionia, Hunger non è di certo un film per tutti. Eppure è un film che tutti, prima o poi, dovrebbero vedere.