“…mi sembra che ormai esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada”. Le parole di Calvino viaggiano nel tempo e diventano il pentagramma su cui Stefano Chiantini scrive la propria opera. La chiave di violino e di lettura del film risulta essere l’eterna incompiutezza delle anime che giostrano in scena. I protagonisti si avvicinano, si sfiorano, per poi allontanarsi d’improvviso, circondati da un’aura di costante irrequietezza. Angelo (Alessandro Tiberi), aspirante scrittore e cameriere part-time, precipita frequentemente nella dimensione irreale in una vita da scrivere e non da vivere e in un amore che tramuta la felicità in un vortice, in cui si perdono sogni e speranze. Il mondo di Martina (Giovanna Mezzogiorno), studentessa e hostess di volo, risulta solo apparentemente pieno. E’ soltanto il superficiale substrato di un’esistenza caratterizzata da un vuoto interiore, legato alla difficile situazione familiare e dal rapporto sentimentale con Angelo, che genera fugaci frammenti di felicità, senza mai appagare totalmente. Intorno a loro si muovono in un quadro realizzato con malinconica leggiadria erranti figure, costantemente in bilico tra incontri e incomprensioni. Marit (Marit Nissen), madre di Martina, vive con Fernando (Alessandro Haber) un amore lacerato, privo di confini, emblema perfetto di innumerevoli coppie di facciata, che dietro alla maschera di normalità da offrire al mondo nascondono uno scheletro estremamente fragile. La presenza-assenza del padre di Angelo, Nicola (Rocco Papaleo, attore e co-sceneggiatore), congiunzione perfetta tra fantasia e realtà, inserisce elementi satirico-ironici, capaci di amplificare l’aspetto più drammatico racchiuso nel film. La regia contraddistinta da frequenti cambi di fuoco e dalla mancata centralità degli attori nelle inquadrature, rendono in maniera sopraffina il flusso psichico dei protagonisti, mutevole e mai definito. Nella mente di Chiantini siedono intorno ad un tavolo immaginario John Fante, Michel Gondry e Jean-Pierre Jeunet. Ne fuoriesce un amabile sunto, che regala ai personaggi de “L’Amore non Basta” alcuni tratti dello scrittore Arturo Bandini, del sognatore Stephane Miroux e dell’adorabile Amelie Poulain (l’attenzione per i particolari e il piacere legato alle piccole cose). Il dialogo ha spesso le sembianze di un monologo, a sottolineare l’incomunicabilità esistente tra i protagonisti, vicini fisicamente, ma incredibilmente distanti mentalmente. Nell’aria viene trasportata una melodia, due anime iniziano a danzare beate, ma viste da lontano sono sole. Un ballo struggente e solitario.