Può un regista semi-esordiente con un trascorso da cantante melodico/sentimentale, realizzare in Italia un film horror vecchio stile, per di più in un periodo storico in cui il cinema di genere nel nostro paese è defunto da almeno un decennio? La risposta si intitola Shadow – L'ombra. Federico Zampaglione, dopo aver diretto alcuni video della sua band, i Tiromancino, decide nel 2006 di fare il grande passo e mettersi dietro la macchina da presa in un lungometraggio, Nero bifamiliare, ottenendo un discreto riscontro di critica e pubblico. Da questa esperienza Zampaglione devia alla sua grande passione: il genere horror. Con una sceneggiatura scritta a sei mani (con il padre Domenico e l'amico Giacomo Gensini), e un produttore che sembra non arrivare mai (neanche un aiuto illustre come quello di Dario Argento riesce a perorare la causa), infine Massimo Ferrero decide di rischiare di tasca propria i finanziamenti necessari per mettere in cantiere il film. David (Jake Muxworthy) parte in bicicletta per un viaggio solitario in una zona isolata e collinosa. Dopo aver prestato servizio in Iraq, l'unica cosa che desidera è buttarsi alle spalle gli orrori della guerra e immergersi nel silenzio della natura. Non tutto però, va secondo i piani e tra i boschi nebbiosi, David si imbatte prima in una ragazza, Angeline (Karina Testa, vista nel francese Frontieres), poi in due cacciatori poco raccomandabili (Ottaviano Blitch e Chris Coppola). Dopo un vorticoso inseguimento nel bosco, i protagonisti si risvegliano in una stanza umida, legati a freddi lettini d'acciaio, e il vero incubo ha inizio. A prima vista Shadow può sembrare una manovra costruita sulla falsariga dei vari Hostel e Saw, ma in realtà quello che Zampaglione crea è un film molto più complesso dei tanto modaioli torture-porno. La parte iniziale ambientata nel bosco è caratterizzata da una regia nervosa, inquadrature instabili, l'uso ossessivo della macchina a mano e palesi richiami ai survival-movie come Un tranquillo weekend di paura e Blastfighter, arrivando persino ad ammiccare a Un lupo mannaro americano a Londra. Poi tutto viene sconvolto secondo un'imprevedibile logica quasi fulciana e l'azione viene trasferita all'interno della tipica casa isolata, tra cantine, corridoi e stanze straripanti di riferimenti socio/culturali dell'era moderna (le guerre, i dittatori, l'iconografia nazista). Gli ambienti sono densi dell'atmosfera imposta dalla tradizione gotica italiana e richiamano i maestri Bava e Freda, mentre la sonorità di certi brani di fondo rimandano all'inquietudine ossessiva dei Goblin nel migliore Argento degli anni '70. Ma quello di Zampaglione non è un semplice sfoggio di cultura cinematografica: amalgama tutto, lo impasta fino a donargli nuova forma, riempiendo ogni inquadratura di passione, atmosfera, citazionismo inconscio che prende le distanze dalla pratica di stile a cui Tarantino ci ha abituati. La psicologia dei personaggi pesca a piene mani dagli stereotipi del genere, ma il risultato è comunque credibile; gli interpreti sono ottimi, specialmente Nout Arquint (Mortis) che, nonostante non pronunci nemmeno una battuta, riesce a modellare un villain tridimensionale, palpabile, amorale e tormentato allo stesso tempo (splendido il richiamo a Il settimo sigillo di Bergman nella scena finale). È interessante osservare anche il sottotesto che il film cela: una critica dura e spietata alla guerra e una riflessione importante su tutte quelle persone nascoste dai media dietro la parola “feriti”, ma che in realtà sono vite compromesse per sempre. Shadow non è di certo un prodotto perfetto, ma sfodera al momento giusto un paio di colpi di scena davvero degni di nota. Di certo Zampaglione non sarà il messia che rivitalizzerà il cinema di genere in Italia, ma il film ha tutte le carte in regola per non passare inosservato (come già accaduto con i recenti Imago mortis e Smile) e ritagliarsi una nicchia nel cuore degli appassionati. Forse, qualcosa, sta iniziando a muoversi.