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22 luglio

22/10/2018 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

22 luglio

Il fatto di cronaca più sanguinoso accaduto in Norvegia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale

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Oslo, 22 luglio 2011, ore 15.25: un’autobomba esplode davanti al Regjeringskvartalet, quartier generale del governo norvegese, causando 8 morti e svariati feriti. Si pensa subito a un attacco terroristico. Alle 17.30 circa a Utøya (isola lacustre a un’ora di macchina a nord della capitale) si presenta un poliziotto, dicendo che deve fare un sopralluogo per assicurarsi che non si verifichino altri attacchi. Sull’isolotto è in corso un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese a cui prendono parte ragazzi di età compresa tra i 10 e i 20 anni. Quando il poliziotto mette piede sull’isola inizia a sparare, mietendo 69 vittime prima che l’Unità Norvegese Anti-Terrorismo riesca a fermarlo.


Il finto poliziotto autore della strage, responsabile di aver ucciso 77 persone, è Anders Behring Breivik, trentaduenne norvegese simpatizzante dell'estrema destra, dichiaratosi anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamista e «più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950».


La strage del 22 luglio è il fatto di cronaca più sanguinoso accaduto in Norvegia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: curiosamente quest’anno sono approdati sullo schermo due film che lo mettono al centro della narrazione. Il primo è Utøya 22 juli, produzione norvegese firmata da Erik Poppe: un unico, angosciante pianosequenza che rimette in scena la strage in “tempo reale”. Il secondo è l’americano 22 luglio a opera di Paul Greengrass, sicuramente un film più canonico, ma non per questo meno duro.


La pellicola è stata presentata allo scorso Festival del Cinema di Venezia senza riscuotere particolare entusiasmo, molto probabilmente perché negli anni Greengrass ci ha abituati a ben altri tipi di film. Specializzato nel portare sullo schermo eventi “scottanti” – Bloody Sunday, United 93, Captain Phillips sono tutti film basati su fatti di cronaca contemporanea – con un taglio che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica del suo cinema, un ibrido tra action e documentaristico, era lecito aspettarsi una pellicola che rientrasse in pieno in questo stile.


Così infatti è, anche se solo in parte. Il film si apre in quel pomeriggio del 2011, seguendo le folli gesta di Breivik, immortalandole in pieno Greengrass style. La strage di Utøya ci viene mostrata in modo asciutto, freddo, senza spettacolarizzazioni né compiacimento, il che è senza dubbio un pregio non da poco e un’impresa stilistica che non a tutti sarebbe riuscita. Al minuto 50 del film, però, la cronaca è terminata: Breivik viene arrestato e allo spettatore restano ancora quasi 90 minuti da guardare (praticamente un film intero!) perciò la consona domanda è: che cosa ci faranno vedere adesso?


Quello che ne segue è il processo autore della strage mentre una nazione intera si interroga su quanto possa essere giusto concedere un equo processo a un individuo del genere, esaminando tutte le implicazioni etico/morali legate alla questione. E nel raccontarci tutto ciò (quello che a tutti gli effetti dovrebbe essere il cuore del film) la narrazione perde di mordente. Questa seconda metà corale risulta abbastanza fiacca, soprattutto perché la regia dona molto spazio a personaggi e situazioni che risultano essere meno interessanti di altre. Un esempio è il personaggio dell’avvocato della difesa, la cui scomoda posizione non viene mai indagata a fondo; si preferisce mostrare lunghissime scene di riabilitazione a uno dei ragazzi sopravvissuti. Il risultato è un film potentissimo nella sua prima parte, ma che poi si trasforma in un indagine psicologica poco incisiva, al punto da smorzare il duro messaggio di denuncia sociale che vorrebbe portare a galla. Da Paul Greengrass era lecito aspettarsi qualcosa di più.


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