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Il mi$$ionario

03/02/2010 12:00

Antonella Murolo

Recensione Film,

Il mi$$ionario

Chi ha detto che l’abito non fa il monaco? Non deve pensarla esattamente in questa maniera il regista Roger Delattre che ne Il Missionario gioca con la natura u

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Chi ha detto che l’abito non fa il monaco? Non deve pensarla esattamente in questa maniera il regista Roger Delattre che ne Il Missionario gioca con la natura umana e di come essa muti a seconda delle apparenze.


Dopo sette anni trascorsi in carcere Mario Diccara (Jean-Marie Bigard) è finalmente libero, ma ad attenderlo fuori ci sono i suoi due complici, decisi ad impadronirsi a tutti i costi della loro parte del bottino. La malavita comincia a trasformare in un mucchietto di cenere tutto quello a cui lui più tiene e Mario è costretto a chiedere aiuto all’unica persona di cui si fida realmente: suo fratello Patrick (David Strajmayster), un prete che gli suggerisce di raggiungere Padre Etienne e nascondersi per un po’ nell’Ardèche. Ma le cose non si evolvono mai come ci si aspetta e la tunica lo trasformerà ufficialmente, agli occhi del paesino rimasto privo di parroco, in Padre Mario.


Il film parte con l’irruenza di una violenta testata e si trasforma subito in una commedia degli equivoci in cui, nonostante tutto possa accadere, è palpabile il profumo del lieto fine. Mentre Mario, nascosto dietro l’apparentemente rude volto di Jean-Marie Bigard, rimasto incastrato nel soffocante affetto dei paesani dell’entroterra riscopre che cosa significa essere buoni, suo fratello - il comico televisivo Doudi Strajmayster - si trova immischiato nei traffici della malavita, capaci di corrodere persino l’animo di un uomo di chiesa. Gli espedienti studiati per far ridere lo spettatore sono molti e, se in principio appaiono rozzi e grossolani, legati soprattutto ad un linguaggio ed un atteggiamento violento, divengono presto genuini e piacevoli. Potremmo considerare Il missionario una moderna rivisitazione, in chiave non musicale, del più classico Sister Act: l’idea di base è quella di nascondere un delinquente all’interno del più sacro dei luoghi ed integrarlo con esso. Se all’inizio il protagonista vuole a tutti i costi trovare un modo per fuggire da una situazione che non gli appartiene, nei 90 minuti di narrazione riuscirà a sentirsi a proprio agio con la tunica e a reinventare il ruolo del parroco. Il secondo lungometraggio di Delattre fa ridere il suo pubblico, senza dimenticare però la grammatica del cinema e curando nei particolari la composizione degli ambienti, caldi e soleggiati, e lo score musicale che, scimmiottando leggermente noti temi come quello de La Pantera Rosa, si mescolano alle improbabili canzoni popolari ed accompagnano i personaggi nella loro evoluzione. «Vorrei che gli spettatori ridessero, ovviamente! Ma anche che rimanessero toccati, perché è una commedia che contiene dei momenti di vera emozione» - confessa il regista. Missione compiuta.


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