Karen White (Dee Wallace), un'affermata giornalista televisiva, viene aggredita da un maniaco nella cabina di un peep-show. Ancora scioccata per l'accaduto, decide di passare un po' di tempo in un centro di sostegno psicologico. L'incubo sembra passato, ma quando dovrà fare i conti con i suoi incubi e soprattutto con i particolari pazienti del centro, il suo equilibrio mentale verrà a mancare. Prometteva bene Joe Dante, già dal suo secondo film. Prima di raggiungere la celebrità con Gremlins il cinefilo e versatile regista dona nuova linfa e vita al dimenticato archetipo horror del licantropo. L’Ululato è un piccolo gioiello insensibile al trascorrere del tempo, incastonato con il talloncino cult nella filmografia di questo sorprendente autore. The Howling è un condensato di filoni e sottogeneri diversi, all’interno del quale pulsa incessante la vena ironica e sarcastica del cineasta: in possesso della rara qualità di utilizzare la forma cinema per suggerire altro che non sia solo ed esclusivamente intrattenimento. L’intuizione iniziale dello schermo ridotto in frantumi rimanda all’immaginario appartenente al decennio appena trascorso (praticamente una citazione del trailer di Venerdì 13), mentre la successiva incursione nelle atmosfere poliziesche riporta alla mente i contemporanei B movie firmati da William Lustig. Gli omaggi fotografici e sonori alla tradizione della Universal (lune che squarciano le nubi, boscaglie attraversate dalla nebbia, selvaggi latrati in lontananza), così come la meta-cinematografia di rito (il passaggio televisivo del classico The Wolf Man), nascondono le vere intenzioni di Dante. Ad interessare non è né lo stereotipo né il manierista esercizio di stile, bensì la metafora relativa al forzato equilibrio tra sessualità vissuta e repressa pulsione selvaggia e animale. Una riflessione che ha inizio immediatamente, a partire dal timido ingresso di Dee Wallace nello squallido porno shop. Cineasta arguto e tagliente, Dante si fa beffe della psicologia intesa come dogma salva vita rivelando, sotto l’abito di un rassicurante specialista, un insospettabile creatore e direttore di una riserva naturale per lupi mannari. Immune da giudizi negativi non è l’architettura mediatica, attaccata, seppur sottilmente, attraverso la critica al modus operandi dello scoop ad ogni costo e all’errata ricezione di un evento da parte di un pubblico abituato agli inganni catodici, nonostante in onda vada una vera e propria morte in diretta. Il vagito natale di una cinematografica coscienza politica destinata a germogliare con Matinèe e La Seconda Guerra Civile Americana, prima di rivelarsi in tutta la sua dissacrante potenza con HomeComing. Sotto trame testuali a parte, L’Ululato verrà ricordato soprattutto come il trionfo di Rob Bottin, make-up artist dallo smisurato talento che sta all’universo dei licantropi come Tom Savini a quello degli zombi. Esclusivamente suo e delle rivoluzionarie applicazioni artigianali, il merito della prima trasformazione nella storia del cinema dell’uomo in lupo. Senza che giochi di dissolvenze e dinamiche di montaggio interferiscano nella prodigiosa sequenza. Nessuno, nemmeno la coppia Landis-Baker riuscirà a raggiungere i livelli toccati dal duo Dante-Bottin.