A 50 anni dalla morte di Marilyn Monroe, il ritrovamento e la pubblicazione da parte di Susan Strasberg dei Fragments, le scatole con gli appunti e la corrispondenza della diva, offrono alla due volte nominata agli Oscar Liz Garbus l’occasione per realizzare un documentario che racconti un’inedita Norma Jean Mortenson, attraverso i suoi più privati pensieri di donna. Il 5 agosto 1962 Marilyn Monroe viene trovata senza vita nel suo appartamento di Brentwood, a Los Angeles. La versione ufficiale della polizia parla di un’overdose di barbiturici: Marilyn era certamente depressa, forse schizofrenica. Ma dai diari pubblicati nel 2012 da Susan Strasberg, la giovane ma già promettente regista Liz Garbus trae un ritratto di donna tutt’altro che disturbata: Marilyn, che nei suoi appunti usava firmarsi semplicemente “M.M.”, usando le iniziali del suo pseudonimo, era una donna fragile, reduce da un’infanzia complicata e da una vita di maschere e finzioni, in cerca di sentimenti reali e di semplicità. In cinquant’anni su Marilyn, icona di un’epoca e sex symbol tra le più amate di tutti i tempi, sono state prodotte opere di ogni sorta: dal MM Portrait di Andy Warhol all’intimo romanzo Blonde di Joyce Carol Oates sino al recentissimo My Week with Marylin di Simon Curtis, film con protagonista una seducente Michelle Williams. Con Love, Marylin, la Garbus si fa narratrice di un ennesimo ritratto della Monroe, stavolta attraverso le stesse parole dell’attrice: nei versi d’amore scritti agli amanti, nelle preoccupazioni per il futuro, nelle insicurezze ma anche nella determinatezza di dover vendere il proprio brand senza errori né indugi, nel timore di una carriera appesa ad una evanescente bellezza e ad un talento sempre in discussione. La giovane regista sceglie un approccio originale affidando l’interpretazione dei diari di Marilyn ad un cast stellare che raccoglie icone di Hollywood di diverse età e provenienza: da Uma Thurman a Glenn Close, da Viola Davis a Lindsay Lohan, ognuna di queste attrici veste una delle tante maschere di Marilyn, ad identificarne i mille volti. A questa scelta, che ha sì del commerciale ma che rivela un approccio femminile intuitivamente visivo, la Garbus abbina alcuni interventi di Adrien Brody, Paul Giamatti, F. Murray Abraham, vere e proprie leggende come Billy Wilder, Truman Capote ed Elia Kazan, “ospiti” tuttavia di una dimensione narrativa inevitabilmente tinta di rosa. All'interno di una filmografia e bibliografia, quella su Marilyn, sterminata, l’approccio di Liz Garbus non si può dire non porti una ventata di originalità, almeno nelle intenzioni. Purtroppo però tale eccesso di glamour hollywoodiano e di commercialità (definitivamente stridente è la colonna sonora pop che accompagna le belle immagini vintage) finisce per tradire le proclamate intenzioni diaristiche e proclama di nuovo un volto di diva infelice già lungamente visto. Fatta infatti eccezione per qualche inedita rivelazione in campo professionale, come la fitta corrispondenza con Lee Strasberg dell’Actor's Studio, una frequentazione dell’attrice che racconta una Marilyn perfezionista, lontana miglia dalla frivola attrice di Broadway e anche dalla modella di Playboy. Per il resto Love, Marylin non solo aggiunge molto poco alla già nota biografia ma si rivela un documentario di tesi pavide: pur rifiutando infatti l’idea del suicidio, la Garbus rinuncia a dare la propria versione sul giallo attorno alla morte della diva, non arrivando nemmeno ad affrontare il tema del complotto o del delitto d’amore e follia. Ciò che Simon Curtis aveva fatto con il suo My Week with Marilyn, affidare cioè al talento di Michelle Williams un volto di diva sorridente e seducente e non il visitato ritratto complesso e tormentato, Liz Garbus sceglie invece di aggrovigliare di nuovo la matassa provando ad aggiungere elementi alla sua vicenda personale ma finendo col realizzare un’opera idolatra, che prova ad arruffianarsi i fan della Monroe con qualcosa che poco si discosta dal mero gossip.