Prima che cominci l'università, in una calda estate inglese, quattro ragazzi vivono gli ultimi divertimenti adolescenziali. La storia tra Jon e Grace, studentessa tedesca in visita in Inghilterra, comincia tra le carezze e le incertezze di una relazione ancora informe. Il sesso è la pratica che li unisce e allo stesso tempo li allontana. Nel frattempo la sua migliore amica, Scout, sta intrecciando un rapporto particolarmente violento con il suo storico fidanzato Chris, combattuta se lasciarlo o continuare ad amarlo per inerzia. Le giornate scorrono lentamente: sotto le lenzuola la passione li rigenera e scaccia i pensieri di responsabilità; in discoteca l'alcol è sempre a portata di mano e laddove manca, possono sempre contare sul fumo che annebbia la vista e allevia lo stress. Pulsioni che mettono in moto la macchina rivelatrice delle nuove generazioni, cui il giovane regista si pone come il più autorevole e attivo rappresentante – in una scena l'inquadratura si allarga svelando l'artifizio: realtà e finzione si tengono per mano. Cinema sensoriale, ruffiano nell'estetica, costato appena tremila sterline e diretto dal factotum diciottenne britannico Rob Savage (sua anche fotografia e sceneggiatura), già attivo nel campo dei videoclip indipendenti e nei cortometraggi. Strings è un tentativo presuntuoso di rievocare la Nouvelle Vague francese – o anche solo omaggiarla – convertendo un disagio in termini di mezzi e budget in una precisa scelta stilistica. I tecnicismi utilizzati risultano tuttavia fini a se stessi, seppur ben amalgamati con la musica e gli effetti sonori che - in assenza dei dialoghi - definiscono le emozioni percepite dai protagonisti: fuori fuoco, macro, contrasti, controluce creano un'atmosfera di assuefazione penetrante. Sfortunatamente la mancanza di uno scheletro narrativo fa traballare il senso di concretezza di questa operazione smisuratamente intimista, che si piega senza soluzione di continuità alle regole del videoclip emozionale. Certo, si apprezza la tenacia sostenuta da Rob Savage, ma servirsi di una videocamera per "disegnare con la luce" è uno sfogo creativo esistente e si chiama fotografia. Perfino il cinema muto si accorse dell'importanza delle parole, usufruendo di inserti testuali tra due scene per migliorare la fruibilità della storia. In Strings, al contrario, anche le situazioni più banali vengono contaminate da una poetica per immagini virtuosa, che non comunica nulla di diverso da quello che la videocamera ostenta ad inquadrare. Sorge spontanea una domanda: quando il regista si mette al servizio della pratica cinematografica e quando invece avviene il contrario? Se l'arte è appannaggio esclusivo di chi la genera, il quesito è destinato a rimanere aperto.