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A Dangerous Method

28/09/2011 11:00

Marco D'Amato

Recensione Film,

A Dangerous Method

Se ogni film di Cronenberg può essere tranquillamente definito un piccolo trattato di psicologia, sembra una naturale conseguenza che i protagonisti del suo ult

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Se ogni film di Cronenberg può essere tranquillamente definito un piccolo trattato di psicologia, sembra una naturale conseguenza che i protagonisti del suo ultimo lavoro siano Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, i padri putativi della disciplina e pionieri della psicoanalisi. Socrate e Platone, sole e luna, zenith e nadir del pensiero moderno: l’uno legato al singolo, l’altro al collettivo; il primo fermamente convinto che nella sessualità ci fosse la chiave per ogni tipo di nevrosi, il secondo persuaso che “il mondo non può reggersi su un solo cardine”. La rocciosa pragmaticità e il rigore scientifico di Freud viaggiavano su una strada parallela rispetto alle aperture mistiche e all’impulso fortemente caritatevole che anima la ricerca del delfino svizzero, due percorsi destinati ad allontanarsi sempre di più per non incrociarsi mai.


Siamo alle soglie della Prima Guerra Mondiale e Vienna e Zurigo sono i vibranti centri nevralgici del pensiero e della cultura moderna. Il giovane psichiatra Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) decide di prendere in cura una giovane paziente russa, Sabina Spielrein (Keira Knightley), bella e colta, affetta da una gravissima forma di isteria. Per curarla Jung usa una nuova cura sperimentale studiata da Freud (Viggo Mortensen) in persona, la “terapia delle parole”: è l’inizio della moderna concezione di psicanalisi. Gli enormi progressi registrati dalla paziente sono la scintilla che fa nascere un rapporto di profonda amicizia tra i due scienziati che progredisce di pari passo con il rapporto tra Jung e Sabina, ormai guarita ed avviata, lei stessa, a una carriera da psichiatra. A scardinare l’equilibrio tra i tre è Otto Gross (Vincent Cassel), psichiatra tossicodipendente, dalle teorie provocatorie e dall’esibita, completa, amoralità. I suoi pensieri, in particolare sull’innaturalità della monogamia, scalfiscono lentamente ma inesorabilmente le ferme convinzioni scientifiche, ma soprattutto la granitica deontologia e la convinta etica protestante di Jung, minando lentamente il vincolo che lo lega alla devota moglie Emma (Sarah Gadon). Ne nasce un torbido rapporto tra Jung e Sabina che sconvolgerà ancora di più i delicati equilibri dialettici tra lui e Freud.


La violenza che ha sempre caratterizzato i film del regista canadese qui non è mai esibita, ma è sempre emotivamente presente, riempiendo in maniera capillare ogni singolo fotogramma: c’è violenza nel passato di brutalità subito da Sabina, e violenza è quella che cerca nel torbido rapporto con Jung; c’è violenza nella sottile ma onnipresente tensione che anima le dispute teoriche tra i due psichiatri; c’è violenza in una società ancora bigotta e sessista (la disperata ricerca di Emma di avere un erede maschio). Il fulcro della storia è Sabina, personaggio centrale nella vita e nelle teorie di Jung e Freud: la sua nevrosi, dalle cause meramente sessuali, è la scintilla che permette a Jung di dare sfogo alle sue pulsioni represse e alle frustrazioni imposte da una morale e da un’etica costringente e punitiva. Sabina, appassionata di Wagner, vive come una sorta di possibilità di riscatto la vicenda di Sigfrido e della sua palingenesi, per la quale qualcosa di eroico può nascere da qualcosa di abietto. E l’immorale rapporto con Jung è il grimaldello che la libera dalle sue nevrosi permettendole di diventare ciò che è “destinata ad essere”, secondo le parole di Jung. L’interpretazione che ne dà la Knightley è decisamente sofferta e fisica: davvero impressionante dal punto di vista visivo (Sabina è magrissima, pallida, quasi eterea), leggermente esagerata dal punto di vista recitativo, soprattutto nella prima parte dove Keira sembra calcare decisamente troppo la mano e patisce il confronto davanti allo Jung di Fassbender, eternamente dilaniato tra etica e passione, al titanico Freud di Mortensen e al deflagrante Gross di Cassel. Eros e thanatos, passione, paura, ossessione, follia, nevrosi: c’è tutto Cronenberg in A Dangerous Method estremamente affascinante ma faticosamente assimilabile e difficilmente catalogabile, tra dramma e biografia. Destinato a non piacere a tutti.


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