Breve storia degli afroamericani al cinema. Parte prima, dalle origini agli anni Quaranta: da David Griffith allo stereotipo di Tom e Mammy
C’è un film che, nel bene e nel male, ha segnato in maniera pesante la cinematografia di tutti i tempi. Si tratta di The Birth of a Nation, 1915, di David W. Griffith, ambientato durante la guerra di secessione americana. Il regista, nato in Texas da un colonnello che aveva combattuto nell’esercito sudista durante la Guerra di Secessione, è uno dei primi a rappresentare gli afroamericani, diretti discendenti degli schiavi. Ma i black sono sullo schermo sin dai tempi del protocinema del kinetoscope di Thomas Alvar Edison: la loro è una rappresentazione stereotipata, come già avveniva nella letteratura e nel vaudeville, in cui erano messe in evidenza la fisicità e il (presunto) senso del ritmo. Il black diventa così stereotipo del personaggio un po’ tonto, grande divoratore di cocomeri, che non fa altro che strabuzzare gli occhi, giocare d’azzardo e rubare ai bianchi. Un film della Biograph del 1904, A Nigger in the Woodpile, mostra due neri rubare legna a un contadino bianco; questi, però, aveva nascosto fra i ciocchi alcuni candelotti di dinamite che sarebbero esplosi una volta inseriti nella stufa.
David Griffith in The Birth of a Nation mantiene quest’immagine stereotipata del nero, ma inizia anche la raffigurazione degli schiavi liberati come violenti, ignoranti, stupratori di donne bianche. Sarà il nascente Ku Klux Klan a “liberare” il Paese, ristabilendo l’ordine e giustificando, di fatto, la segregazione razziale e i numerosi episodi di linciaggio degli afroamericani (quegli “strani frutti” – Strange fruits – che pendono dagli alberi, come li cantava Billie Holiday in una delle sue canzoni più amare e drammatiche). Griffith venne accusato di razzismo e il suo film proibito in molte città americane ed europee. Le violente proteste suscitate e i serrati dibattiti sul razzismo ebbero effetto di bandire per anni i neri dallo schermo: i produttori pensavano fosse meglio, onde evitare spiacevoli conseguenze, non affrontare determinate tematiche.
Toms, Coons, Mammies e gli altri
Donald Bogle, autore di numerosi libri sugli afroamericani nel cinema, nel suo Toms, Coons, Mulattoes, Mammies and Bucks (1973), ha stilato una classificazione dei vari stereotipi con i quali donne e uomini black sono stati rappresentati al cinema sin dalle origini. Personaggi diversi ma che sono l’esemplificazione del pervadente razzismo della società americana, della quale il cinema era lo specchio.
Si potevano quindi avere i Toms, asserviti ai loro padroni bianchi, sull’esempio del personaggio de La Capanna dello Zio Tom, il famoso romanzo di Harriet Beecher del 1852. Proprio un film di Thomas A. Edison del 1903, Uncle’s Tom Cabin, dà l’avvio ai Toms nel cinema (in questo caso si trattava di un bianco travestito da nero). Il Coon, per contro, rappresentava una figura tonta, stupida; un buffone nero oggetto di dileggio e divertimento da parte dei bianchi. Il suo esordio al cinema avviene nel 1907 con Wooing and Wedding of a Coon, dove veniva rappresentata una coppia di neri goffi, incapaci e un po’ stupidi in viaggio di nozze. Successivamente la Pathé realizzerà una serie di film con Rastus, un personaggio che racchiude in sé i peggiori stereotipi razziali esistenti. Bogle seleziona anche altre figure tipiche di quel cinema: i Mulattoes, mendaci e dalla carnagione più chiara; i Bucks, violenti e brutali, stupratori e approfittatori come quelli portati sullo schermo da Griffith.
Infine le Mammies, cioè la versione femminile del Tom. Spesso erano domestiche nere rappresentate spesso come donne imponenti, con un vistoso fazzoletto colorato annodato sulla testa, molto legate ai loro padroni bianchi. La più nota della storia del cinema è sicuramente la Mammy di Via col vento (Victor Fleming, 1939) interpretata da Hattie McDaniel, la prima attrice black a vincere un Oscar, anche se la sua vittoria denunciava chiaramente il carattere razzista di questo premio: una nera poteva, sì, vincere l’Oscar ma con un ruolo che la “incatenava” alle sue origini, quello della Mammy buona e servile verso i bianchi.
David Griffith è anche uno dei primi a fare interpretare le parti dei neri a bianchi truccati. Si tratta delle Blackface, performance discendente di una tradizione teatrale in voga sin dai primi anni dell’800: è utilizzata soprattutto nei cosiddetti Minstrel Show, dove attori bianchi si annerivano la pelle con sughero bruciato o con cerone nero e lucido da scarpe. Il bianco Al Jolson in The Jazz Singer, 1927, di Alan Crosland (considerato il primo film parlato del cinema) recitava in Blackface, truccato, per interpretare la parte di un cantante di colore. La tradizione della Blackface contribuì in maniera significativa a diffondere l’immagine profondamente razzista dei bianchi nei confronti dei black. Tale immagine si stemperò soltanto a partire dagli anni Sessanta, con le lotte sociali e le rivendicazioni di leader come Malcom X, Martin Luther King e Jesse Jackson.