Presentato in anteprima assoluta come film d’apertura alla Mostra del Cinema di Venezia 2010, si tratta del quinto lungometraggio diretto da Darren Aronosfky. Chi ha avuto modo di entrare in contatto con le sue opere sa già che introspezione, psicosi e tormento sono le sfumature più ricorrenti nell’eccentrico canovaccio espressivo del cineasta newyorchese; così come avrà notato una certa semplicità e linearità espositiva sul piano più convenzionale e superficiale delle sceneggiature, oltremodo intricate e controverse nella loro martellante ricerca di significati più reconditi. Non è da meno quest’ultima fatica registica, che da frammenti lontanamente rielaborati de Il lago dei cigni di Ciajkovskij trae spunto per l’ennesimo viaggio dantesco fra le pieghe più oscure e contorte del precario equilibrio identitario ed esistenziale, diventando metarappresentazione del balletto stesso nella vita della giovane danzatrice protagonista. Nina (Natalie Portman) è una ballerina classica professionista sulla soglia della definitiva maturità artistica. L’abnegazione e la tenacia della ragazza vengono finalmente premiate quando si vede assegnare il ruolo della protagonista nella prossima rappresentazione de “Il lago dei cigni” dall’esigente direttore della compagnia (Vincent Cassel). La parte sembra richiedere però molto più impegno del previsto, trascendendo le pure abilità tecniche e toccando la sfera più intima dell’animo di Nina, chiamata a interpretare allo stesso tempo due personificazioni apparentemente antitetiche della stessa principessa in modo convincente. Niente di più estenuante per la fragile purezza e la dolcezza del carattere di Nina, incapace di affrontare il lato più passionale e seducente della propria spaventata personalità; sempre più oppressa dalla rivale Lily (Mila Kunis), che quasi casualmente sembra incarnare alla perfezione le sue debolezze. Sarebbe inutile e riduttivo soffermarsi brevemente sui meriti di Aronofsky nel saper dipingere ancora una volta uno straordinario affresco moderno sulla dinamica antropologica che accompagna l’angosciosa crescita di dilaniante consapevolezza nell’individuo. L’inesorabile declinare autodistruttivo verso un’apatica ed agrodolce perdizione erano già stati il leitmotiv del grigio Pi - Il teorema del delirio e dello straziante Requiem for a dream. La rinnovata capacità di offrire un prodotto meno imperscrutabile ed enigmatico durante lo scorrere dei minuti segna per certi versi la metamorfosi decisiva del regista verso l’incontro col grande pubblico, coniugando in modo bilanciato le nevrotiche percezioni delle prime opere con il crudo realismo del più accessibile The Wrestler. Ancor più fondamentale è stata però l’abilità nel riuscire a raggiungere il mercato di massa senza scendere a compromessi, grazie ad una pellicola costruita su strati via via più impermeabili e fruibile a diversi livelli; in grado di accontentare dunque anche lo storico spettatore più visionario. Il progressivo crescendo dei ritmi agonizzanti come gli effetti di un allucinogeno, l’uso mai spettacolarizzato d’immagini suggestive - che lasciano il giusto spazio a dialoghi sempre emblematici - e il ripetuto tremolio alla lunga impercettibile della macchina da presa sono messaggi d’amore e fedeltà verso i fan di vecchia data. Non va infine trascurata la scelta narrativa del soggetto artistico e la buona gestione del suo ruolo contestualizzato nella rappresentazione, che ha permesso all’autore di giocare a nascondino con l’arte stessa in modo schiettamente malizioso; ricucendo il tutto con le tenui melodie dell’onnipresente Clint Mansell, quasi impercettibili soltanto perché ben amalgamate con il resto. Calati egregiamente nelle rispettive figure tutti gli interpreti; ma è disarmante, in una parte che le calza a pennello e sintetizza tutta una carriera giunta alla consacrazione, la prova della Portman - la quale d’altra parte aveva già trovato e dimostrato di saper esibire in precedenza il proprio black swan in Closer.