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In un mondo migliore

07/11/2010 12:00

Tania Marrazzo

Recensione Film,

In un mondo migliore

Dopo tre anni Susanne Bier torna a concorrere al Festival internazionale del film di Roma con In un mondo migliore, già grande successo al Festival di Toronto e

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Dopo tre anni Susanne Bier torna a concorrere al Festival internazionale del film di Roma con In un mondo migliore, già grande successo al Festival di Toronto e candidato agli Oscar 2011. Presentata nella selezione ufficiale della manifestazione capitolina, la pellicola ha messo d’accordo pubblico e critica vincendo sia il Marc’Aurelio del Pubblico al miglior film che il Gran Premio della Giuria, confermando il talento di quella che è considerata la maggiore esponente del cinema scandinavo contemporaneo. La storia, sceneggiata da Anders Thomas Jensen alla sua quarta collaborazione con la Bier, ruota attorno ai drammi interiori di due famiglie sconvolte che fanno fatica a ricominciare.


Marianne (Trine Dyrholm) e Anton (Mikael Persbrandt) sono due medici in crisi matrimoniale, soprattutto a causa della lontananza di lui impegnato in una missione umanitaria in un campo di rifugiati in Africa, lontananza di cui soffre anche il figlio Elias (Markus Rygaard) frequentemente vittima di episodi di bullismo. Christian (William Johnk Nielsen), che vive insieme a suo padre Claus (Ulrich Thomsen), non riesce invece a superare la perdita della madre e si chiude totalmente in se stesso attuando una sorta di ribellione verso il mondo che lo porta a compiere impulsivamente atti di violenza. Quando i due ragazzini si conoscono nasce una bella ma pericolosa amicizia, perché se Christian difende Elias dai suoi compagni di classe più grandi, rischia allo stesso tempo di risucchiarlo nella sua personale rivolta.


Una toccante e profonda riflessione sugli esseri umani e sulla società, sugli schemi attraverso i quali si è abituati a concepirla e nei quali ci si vuole necessariamente uniformare perché ritenuti assolutamente corretti. Lo scontro con la realtà è la consapevolezza che non basta seguire le regole che vigono in un determinato contesto per raggiungere i risultati sperati, in quanto le motivazioni da cui derivano le azioni umane non sempre sono comprensibili e circoscrivibili. L’occhio di Susanne Bier osserva e medita sulle vicende dei suoi personaggi ponendosi una serie di interrogativi che sfociano in un desiderio di speranza, più utopico che reale, e che conserva per questo un’inquietudine di fondo. Ad esplicitare al meglio questa condizione è Anton, colui che cerca di insegnare che la cosa giusta da fare è porgere l’altra guancia senza però riuscire, almeno in apparenza, ad ottenere risultati. Anton è l’idealista per eccellenza, l’uomo che fa di tutto per perseguire con tutte le sue forze alti obiettivi morali, ma che per l’impossibilità del loro raggiungimento soffre e si tormenta: è più importante salvare quante più vite possibili nel disagiato territorio africano o pensare all’unità della propria famiglia?


Il film prende inoltre in esame, rovesciandolo, il luogo comune secondo cui i bambini, per il solo fatto di essere piccoli, debbano essere sostanzialmente sempre buoni. Le azioni di Christian non sono dettate da mancanza di esperienza o ingenuità, egli manifesta una crisi allo stesso modo di qualsiasi individuo ed in quest’ottica deve essere inquadrato, al di là di qualunque buonismo o preconcetto. Le storie dei vari protagonisti sono tutte perfettamente incastrate e bilanciate: ognuno è portatore di una problematica che è costretto ad affrontare, mostrata attraverso una regia introspettiva e riflessiva che predilige il coinvolgimento sentimentale, e in cui la presenza dell’autorialità femminile è fortemente marcata. La Bier costruisce un dramma che esprime il necessario bisogno umano della speranza anche se essa appare inafferrabile, come simboleggia l’immagine dei bambini africani che rincorrono il camion del medico Anton. Oltrepassando i modelli culturali di convivenza sociale e concentrandosi sull’unicità dell’individuo, la ricerca di un mondo migliore rappresenta un punto fondamentale verso il quale volgere in alto lo sguardo.


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