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Quel bravo ragazzo

14/11/2016 12:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

Quel bravo ragazzo

L'esordio da protagonista di Herbert Ballerina

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Don Ferdinando Cosimato (Luigi Maria Burruano), potentissimo boss della mafia siciliana, è in fin di vita. Sul letto di morte, convoca a raccolta il suo avvocato, Enrico Greco (Ninni Bruschetta), e i suoi due uomini più fidati, Vito Mancuso e Salvo La Mantia (Tony Sperandeo e Enrico Lo Verso), per rintracciare il figlio primogenito, Leone (Herbert Ballerina) e affidargli il comando della famiglia mafiosa. Il ragazzo, ignaro di avere un padre, è vissuto 35 anni in un orfanotrofio del Sud Italia facendo il chierichetto. Ce la farà a imparare tutti i segreti della malavita ed essere abbastanza credibile?


Quel bravo ragazzo è la commedia in cui Herbert Ballerina – finora spalla di Checco Zalone e Maccio Capatonda – esordisce da protagonista. Tutta la storia, infatti, è la parabola del suo personaggio: un giovane innocuo, senza troppe pretese e in cerca di affetto paterno. Questo candore genera la vis comica del film: un capo mafia genuino e ingenuo che, con una naturalezza disarmante, si inserisce all’interno della criminalità organizzata portando scompiglio. Enrico Lando, che ha già fatto esordire sugli schermi Pio e Amedeo, Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio, costruisce – con la collaborazione in sceneggiatura dello stesso Herbert Ballerina - un repertorio perfetto per l'attore comico. Esprime a pieno quella verve nonsense, derivante dal “Mondo Maccio” di cui fa parte e che non riesce a lasciarsi alle spalle (tanto da coinvolgere l’inseparabile collega Marcello Macchia anche in quest’avventura cinematografica), in maniera raffinata e meno esasperante del solito per dar vita a qualcosa di credibile e divertente. Questo prodotto non è una semplice rilettura dissacrante della mafia ma un tentativo di fare emergere una comicità assurda e viscerale, stupida ma non banale. Viene ridata dignità a un genere in disuso. Ritroviamo il valore della battuta, pura, semplice e immediata che fa apprezzare l’umorismo in quanto tale. Il film fa ridere: continui stravolgimenti e paradossi social (l’applicazione Ipizzo) riducono la criminalità organizzata a una farsa e smontano la credibilità di chi ne fa parte.


Una storia così funziona al netto di qualche azzardo, come ad esempio scegliere attori che, normalmente, danno un volto drammatico al crimine sugli schermi. Tony Sperandeo – sempiterno cattivo delle fiction a stampo mafioso – sembra totalmente a suo agio nei panni dello scagnozzo goffo e cafone; lo stesso vale per Enrico Lo Verso e Giampaolo Morelli che, come ispettore capo, non si allontana dalle vesti di Coliandro che lo hanno reso celebre. Una commedia demenziale, ma leggermente più ragionata, che si distanzia dagli standard ormai obsoleti che avevamo trovato nella saga de I Soliti Idioti.


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