Dopo aver accettato la scomparsa di sua figlia Antia, Julieta programma una nuova vita insieme al compagno Lorenzo. Sfortunatamente, un incontro casuale con Beatriz, una vecchia amica di sua figlia, risveglierà in lei dolorosi ricordi e il desiderio di scrivere ad Antia un’ultima volta. Questa lettera, però, sarà diversa da tutte le altre e spingerà Julieta ad affrontare, di nuovo, il suo passato. In concorso alla 69esima edizione di Cannes per l’ambita Palma d’Oro, Julieta sembra descrivere parallelamente un balzo a ritroso nel tempo e volge un duplice sguardo al passato: quello di Pedro Almodovar e, insieme, quello della protagonista. L'ennesimo personaggio femminile “spezzato”, intrigante, interpretato da Emma Suàrez e da Adriana Ugarte, che va ad aggiungersi all’olimpo delle muse del regista spagnolo. Se atmosfere provocanti, protagonisti poliedrici e un senso di fascinazione per il “mostruoso” sono sempre stati punti fermi del cinema di Almodovar, tutto in Julieta sembra suggerire e rievocare l’arte del cineasta ai suoi albori, a partire dai colori pop di cui si compone ogni fotogramma – il bianco che tutto avvolge, il rosso pulsante di un cuore che batte, il terracotta e i gialli oro che investono la calda città di Madrid – per finire, infine, agli spiriti di una donna perseguitata che vengono evocati di nuovo da un passato lontano. Tuttavia, se in Volver lo spettro giunge da un luogo fisico e assume tutta una sua dimensione, una propria corporeità che lo rende in grado di mimetizzarsi e amalgamarsi fra la gente di paese, i fantasmi di Julieta sono invece impalpabili, ricorrono sistematicamente e devono avere la propria parte nel viaggio della protagonista. Ma non ci vengono mostrati quando divengono solo ombre del tempo, talmente digeriti e assorbiti come parte integrante di sé. Nel viaggio interiore affrontato da Julieta, mentre scrive la propria lettera, riemergono tutte le dolorose tappe fondamentali che ci permettono di risalire a quell’informazione importantissima ma che ancora sfugge, e che sarebbe in grado di rispondere alla domanda che la protagonista si (e ci) pone. È, dunque, necessario spostarsi lungo l’asse del tempo per accettare un’angoscia assimilata, ma di cui non si sono mai comprese le cause. Anche a costo di “ricadere nella dipendenza”. Tra i mezzi di trasporto che costituiscono l’iconografia della cinematografia, Almodovar sceglie il treno per lasciare che Julieta venga avvolto da suggestioni, visioni, paranoie tipiche del noir (che, però, tinge di vivaci toni pop). Racchiude il genere tra le ampie parentesi del dramma molto più che del mèlo e non sconfina mai nel flemmatico patetismo sentimentale, che sarebbe fin troppo facile da ottenere in altre mani. Il tema del doppio è espediente perfetto per narrare e sottolineare l’amara ironia che fa da filo conduttore fra una vicenda e l’altra, e che conferisce a una sequenza cronologica apparentemente casuale; una sorta di visione fatalistica che accetta un “disegno del destino”: non solo Julieta ripercorre gli spazi già percorsi da sua figlia, dando il via a un cerchio di ripetizioni visive (oltre che a un’armonia ellittica in cui si raffrontano più generazioni tramite il matriarcato, come nei precedenti lavori del cineasta spagnolo), ma v’è un reiterarsi incessante di circostanze simili e mai identiche ( formula già efficacemente sperimentata in Tutto su mia madre). Julieta si serve di soluzioni astute per portare sullo schermo un ritratto scarno, privo di orpelli; a volte, nelle dinamiche e negli snodi narrativi, talmente vicino alla telenovela da provocare un riso ingenuo, ma interamente impegnato a raffigurare la vita come un viaggio agitato da “pontos”, il mare in burrasca, il fluttuare di acque pericolose che tutto inghiottono. La vita, insomma, così com’è.