Ci sono leggende che sembrano ideate apposta per stuzzicare l’estro creativo degli sceneggiatori. Quella di Kaspar Hauser ha tutte le carte in regola per far parte della schiera: posti indefiniti, personaggi ambigui e un alone di mistero destinato a circondarla per sempre. Il regista Davide Manuli (Beket), affascinato dalla disorientante stravaganza dello sconosciuto protagonista, realizza La leggenda di Kaspar Hauser, una pellicola claustrofobica e surreale che porta in scena il teatro dell'assurdo. Strade deserte, case disabitate, silenzio assordante. Lo sceriffo (Vincent Gallo) e il pusher (sempre Gallo) di una sconosciuta isola al centro del Mediterraneo, passano il tempo a sfidarsi a ritmo di danza. La loro monotona esistenza viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo del corpo di un giovane apparentemente morto. Il ragazzo, dopo qualche tempo, riprende vita, inizia ad articolare qualche parola e comincia a fare miracoli. La Granduchessa (Claudia Gerini), allora, da sempre sovrana incontrastata del luogo, gelosa dell'ascendenza che egli ha sugli isolani, incarica il pusher di indagare sulla sua identità. Nonostante molti lo ritenessero un santo, altri un impostore, nessuno seppe mai chi era davvero Kaspar Hauser (Silvia Calderoni). Una scolorita fotografia in bianco e nero, sbilenca e opaca, immortala la monotonia che incombe sull’isola, luogo maledetto in cui personaggi ambigui, strani e deformi passano le loro giornate ad ascoltare il rumore delle onde del mare, cercando conforto alla loro tristezza. L’assordante silenzio che li circonda finisce ben presto per sovrastarli e per relegarli negli anfratti bui e polverosi delle loro dimore. Solo quando il corpo di un uomo semi avvolto in uno sgualcito sudario viene abbandonato sulla spiaggia come un montaliano osso di seppia, le loro esistenze vengono rianimate e riabilitate. Indecisi sull’effettiva importanza del ragazzo, a metà tra un dio e un moribondo, gli isolani lo incatenano, lo ingabbiano e lo obbligano a realizzare miracoli per scoprire la sua identità. I lunghi piani sequenza che riprendono la vicenda, animata soltanto dalla musica elettronica di Vidali, combaciano con il punto di vista di un esterno narratore onnisciente che sembra egli stesso ipnotizzato dalle pose statuarie dei personaggi e dall'immobilità del loro mondo. Il regista, scegliendo di dividere la storia in capitoli, ne esaspera il ritmo monotono e monocorde, portando lo spettatore ad estraniarsi dalla vicenda. Piuttosto che un documentario su uno spaccato di vita esemplare o una riflessione sulla difficoltà di comunicazione, dunque, La leggenda di Kaspar Hauser si limita a svuotare qualsiasi esistenza del suo reale significato.