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Il quinto potere

24/10/2013 11:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

Il quinto potere

Assange splendido mentitore (lo “splendide mendax” del poeta latino Orazio), falsario di se stesso, profeta sregolato e orwelliano, in bilico tra la verità crud

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Assange splendido mentitore (lo “splendide mendax” del poeta latino Orazio), falsario di se stesso, profeta sregolato e orwelliano, in bilico tra la verità cruda di un’informazione che rifiuti qualsiasi manipolazione della fonte e le sue contraddizioni interne di essere umano. È ambizioso, l’obiettivo di The Fifth Estate di Bill Condon: una ricostruzione della storia del sito WikiLeaks che si sposi col ritratto del suo leader carismatico e controverso, quel Julian Assange demonizzato dai poteri forti in quanto terrorista informatico della peggior specie, ostile al giornalismo tradizionale e convinto assertore di un’attività di diffusione delle notizie quanto il più vicina possibile alla realtà non edulcorata. Per quanto non si sbilanci mai sull’uno o sull’altro versante, mantenendo un solido equilibrio formale che lo rende compatto e qua e là persino avvincente, questo riaggiornamento 2.0 della nozione di Quinto Potere è troppo vicino a ciò che racconta per poterne cavare una riflessione degna di nota. E non si tratta di una vicinanza temporale che impedisca il dovuto distacco, ma di un problema esclusivamente di approccio. A questo proposito, il pensiero non può non andare a The Social Network, del quale Il quinto potere replica in modo pedissequo le dinamiche (an)affettive che legano i protagonisti (Mark Zuckerberg ed Eduardo Saverin come Assange e il socio ribelle Daniel Domscheit-Beg). Se il film di David Fincher riusciva però a distanziarsi dalla nuda cronaca attraverso un’analisi di più ampio respiro, quello di Condon si lascia imbrogliare dall’ansia della resa sullo schermo degli eventi effettivi (adattando tuttavia un volume dal punto di vista decisamente parziale). La sensazione non può che essere quella di un’opera soggiogata dal dovere di una restituzione quanto il più possibile filologica rispetto alla realtà di vicissitudini forse fin troppo dibattute per essere maneggiate, ora come ora, con la giusta dose di tranquillità. Figuriamoci poi se di fronte a un materiale del genere si può anche solo immaginare una qualche forma, anche remotissima, di oggettività.


Non basta il magnetico flusso videoclipparo e cyberpunk delle immagini, che vorrebbe mimare l’anarchia del pensiero e dell’intuizioni di Assange, per evocare un discorso metafisico sul potere e gli obiettivi, spesso evanescenti e pretenziosi oltre che civili e appassionati, dei nuovi media. Tutti elementi a partire dai quali The Social Network ridefiniva una nuova idea di audace incoscienza e odisseica astuzia applicata a quello che è a tutti gli effetti il secolo brevissimo (il nostro), imbastendo così una specie di trattato sulla contemporaneità che qui rimane solo accennato, alle soglie del bozzetto e del rotocalco. Una postura che vale anche per la psicologia dei personaggi, fin troppo da manuale: la semplificazione, spacciata per fine profondità, secondo cui l’ossessione di Assange per i segreti altrui deriverebbe da un rapporto non conciliato con i propri misteri interiori sarebbe stata accettabile solo se avessimo avuto a monte una densità d’analisi maggiore. E se da un altro il film è abile nel riprodurre fedelmente la parabola mediatica del giornalista australiano, da ideologo rivoluzionario del citizen journalism a macellaio con le mani sporche di sangue, non si può dire però che mantenga lo stesso livello nel caratterizzarlo: Assange ne viene fuori come un narcisista megalomane che vede conflitti in ogni dove ma ancor di più come un cattivo da fumetto, troppo bidimensionale per essere credibile fino in fondo nonostante la bella prova attoriale di Benedict Cumberbatch.


Il quinto potere è in generale piuttosto non schierato e quasi cerchiobottista, tra la seduzione per gli aspetti più affascinanti del personaggio Assange e un accenno di riprovazione morale piuttosto contenuto che affiora solo negli eccessi più indifendibili delle sue azioni. Non trapela nulla, invece, sullo scandalo delle attività illegali della banca svizzera Julius Baer, sull’Iraq, sull’Afghanistan, sul Cablegate o sugli altri successi targati WikiLeaks, fatta eccezione per il finale, in cui il film non riesce a fare meno di buttarsi a capofitto nel tentativo di tirare le somme, per altro attraverso la voce del Guardian a rappresentanza della stampa tradizionale (un segnale di malcelato conservatorismo a dir poco allarmante). Quello che riesce davvero poco bene a Condon, dunque, è la chiusura del cerchio: in quelle ultime frasi fin troppo declamatorie a stupire in negativo è l’utilizzo grossolano della retorica da parte dello script di Josh Singer, ex collaboratore di Aaron Sorkin. Un scrittore con la S maiuscola, quest’ultimo, che nella sua magnifica serie tv The Newsroom ne fa un uso ben più funzionale e illuminante, adoperandola per aprire voragini, dubbi enormi e riflessioni amare di portata non indifferente. Una lezione da prendere a modello per qualsiasi penna voglia avventurarsi nel territorio ostile ma ricco di spunti del rapporto tra la stampa vecchia e quella nuova e rampante, con tutti i suoi vezzi, i suoi propulsivi punti di forza ma anche i suoi limiti da non sottovalutare mai e da tenere sempre a mente.


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