Posizionandosi su un percorso intermedio tra fiction e documentario, Amore Carne è in realtà un'opera complessa, di difficile classificazione, che sfugge alle gerarchie stilistiche, tentando di imporsi come unità a sé stante, racconto indipendente e libero che fa della necessità di raccontarsi la propria ragione d'essere. Un'opera eclettica e quasi labirintica, inserita alla perfezione nella poetica del regista Pippo Delbono che, alla sua quarta prova da metteur en scene dopo Guerra, Il Grido, La paura, utilizza la vetrina del grande schermo per raccontare se stesso e i propri fantasmi. Con un telefonino in una mano e una mini telecamera full HD, Pippo Delbono guarda, spia, strattonando lo spettatore e spingendolo a varcare i confini dello schermo, come in una violenza carnale metacinematografica. Ecco allora che il pubblico - volente o nolente - è condotto vero il superamento dei propri preconcetti, tuffandosi nella vita che il regista regala agli altri, quasi come un divino insegnamento alla visione. Perché è questo il punto che il regista sembra seguire con più ossessione: dagli incontri con gli amici, alle testimonianze di eventi che hanno cambiato il volto della nostra Italia (come il terremoto dell'Aquila), passando per un recupero della storia nel senso più ampio del termine, Delbono non fa altro che allungare la propria visione del mondo all'occhio implacabile della macchina da presa, volutamente imperfetta e disturbante. Recuperando monologhi della sua carriera da teatrante, aggiungendo testi poetici che vanno da Rimbaud a T.S. Eliot, il regista segue se stesso lungo i confini di un'Europa irriconoscibile, che si palesa solo attraverso le camere d'albergo visitate. E in questo rimando di immagini, poesia e musica, Delbono cerca il proprio alito di vita, la ricerca dell'esistenza attraverso un'esperienza di morte. Amore Carne nasce quasi come conseguenza della morte della madre del regista, vissuta a lungo ignorando la realtà attorno al figlio, che ha sempre nascosto la propria omosessualità. Ora, da quella morte, Delbono rinasce, come un parto macabro, librandosi finalmente libero al di là dei preconcetti. Tutte intenzioni altissime e poetiche, che tuttavia rendono la pellicola un'opera ardua, quasi inintellegibile, in cui ad emergere è l'autoreferenzialità di un regista perso nel proprio narcisismo, convinto dell'universalità della sua stessa visione. Lo spettatore, di conseguenza, non si trova guidato o invogliato a proseguire il sentiero di scoperta, quanto piuttosto costretto a procedere lungo un tracciato forzoso e, almeno ai suoi occhi, quasi straniante, che finisce col diventare uno spettacolo noioso.