Fan (Guoli Zhang) è un ricco possidente terriero, a capo di uno dei più grandi e floridi granai della sua zona. Ma nell’Henan, regione al centro della Cina, una grande siccità mista all’invasione di sciami di locuste, la ricchezza dell’uomo è destinata a durare poco. L’anno è il 1942 e il secondo conflitto mondiale si aggiunge alle molteplici prove che circa dieci milioni di cinesi in esodo devono affrontare. Costrette a morire di fame, a lasciarsi alle spalle le proprie esistenze, le popolazioni più povere si mettono in marcia per un biblico pellegrinaggio che dovrebbe portarli fino alla salvezza. Mentre la guerra imperversa, il governo da un lato finge di non vedere quanto drastica sia la situazione degli sfollati, dall’altro costringe i suoi cittadini a pagare pesanti tasse in grano all’esercito al fronte. Solo l’intromissione di un giornalista americano (Adrien Brody) permette al mondo di scoprire la verità, costringendo le istituzioni cinesi a correre ai ripari. Il film di Xiaogang Feng è uno spettacolo poderoso, che racconta una delle pagine più infamanti della storia cinese. Consapevole della voragine informativa riguardante la siccità nell’Henan - che portò alla morte di circa tre milioni d’abitanti - Xiaogang Feng dirige la sua pellicola più sentita, dove si scaglia con malagrazia contro tutte quelle istituzioni che finsero di non vedere quando metà della popolazione cadeva tra gli stenti. In Back to 1942 (conosciuto anche con il titolo Remembering 1942) il regista cinese cerca di ricostruire con l’esattezza di uno storico le vicissitudini di un gruppo privilegiato di sfollati, intervallandole con inserti su riunioni, consigli di guerra e progetti sparsi per tutta la Cina. Il risultato è una narrazione spesso appesantita da troppi dettagli cronachistici, male inseriti in una diegesi che, quando si focalizza sull’aspetto più umano della vicenda, riesce a parlare alle corde emotive del pubblico. Maestoso come le vecchie produzioni di Hollywood, Back to 1942 ad una prima visione potrebbe apparire come un pot pourri storico-melodrammatico in stile retrò. L’intento del regista, in questo suo eccedere in ogni aspetto della messa in scena, con campi estremamente larghi contrapposti a primissimi piani dei protagonisti, è proprio quello di immergere lo spettatore nella tragedia narrata, attraverso toni forzatamente epici, coadiuvati da una fotografia tinta di bianco avorio e grigio. L’affresco che il regista mette in scena non risparmia niente: da bambini trucidati dagli attacchi aerei di fuoco amico, ai cani randagi che banchettano su cadaveri in putrefazione, a padri che senza vergogna vendono le proprie figlie per provare a salvare le mogli malate. Moribonda, senza speranza e orfana, l’umanità che Feng mette in scena è una razza spezzata e tradita, patetica nell’accezione più alta del termine, coraggiosa nel suo tendere comunque verso la speranza della sopravvivenza. In questo racconto dai toni biblici, tuttavia, Feng di tanto in tanto sembra perdere la bussola, e allentare le briglie della sua autorialità: alcuni snodi narrativi si fanno confusi e di difficile comprensione, mentre personaggi semplicemente abbozzati – come quello di Brody o il prete interpretato da Tim Robbins – finiscono con l’essere delle macchie di colore sperdute in questa drammatica epopea.