«I genitori che si servono abitualmente ed a lungo della televisione come una specie di bambinaia elettronica, abdicano al ruolo di primari educatori dei propri figli». Christian Molina sembra aver fatto sua la vecchia frase di Karol Wojtyla nel portare al cinema il suo I want to be a soldier, storia di come l’uso sconsiderato della televisione possa avere terribili conseguenze su una mente malleabile e indifesa come quella di un bambino in piena fase di sviluppo. Presentato alla V edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, portandosi a casa il premio della sezione "Alice nella città", il film di Molina rimane impresso nelle retine degli spettatori per l’attualità del tema affrontato. Alex (Fergus Riordan) è un bambino che da grande vuol diventare astronauta e visitare la stella Alfa Centauri insieme al suo amico immaginario Capitan Harry (Ben Temple), che lo spinge ad essere bravo a scuola e tra le pareti domestiche, perché gli uomini dello spazio devono essere intelligenti e abituati alla disciplina. Sotto questa fulgida guida, Alex si impegna a scuola, e a casa cerca di comportarsi nel migliore dei modi, sebbene faccia i capricci per avere nella sua stanza una televisione da guardare in libertà, come la maggior parte dei suoi compagni. I genitori, preoccupati dalla violenza delle immagini televisive, e spaventati dalla mancanza di controllo sui contenuti, negano al bambino quella frivolezza. La situazione cambia quando la madre di Alex partorisce due gemelli che prosciugano le energie dei genitori, costringendo il ragazzo a fare i conti con la gelosia di vedersi portar via uno spazio di cui, fino a nove mesi prima, era il padrone assoluto. Devastato dai sensi di colpa per le poche attenzioni che rivolge al figlio, il papà di Alex alla fine cede alla tentazione di comprarsi l’affetto del ragazzo e gli regala la tanto agognata televisione. Senza più nessun adulto a prendersi cura della sua educazione, Alex si lascia rapire dalle immagini che vede alla televisione, e il placido Capitan Harry lascia il posto al suo malvagio Alter Ego, il sergente John Cluster. Sotto lo sguardo indifferente dei genitori, il piccolo astronauta si trasforma in un mini naziskin, che sogna non più le stelle della volta celeste, ma quelle sull’uniforme, derivanti da atti di crudeltà e violenza contro qualsiasi altro essere umano. Fergus Riordan, interpretando il giovane Alex regala, senza alcun dubbio, la miglior interpretazione della pellicola, capace di mettere in ombra chiunque orbiti intorno alle disfunzioni sociali e relazionali del ragazzino che cerca nella televisione l’affetto di quei genitori che crede di aver perso. Abbandonato davanti ad una tv-monstrum, fatta solo di guerra e di marce propagandiste à la Leni Riefenstahl, regista di propaganda per Hitler, Alex rappresenta la deviazione massima verso cui virano gran parte dei bambini di oggi, lasciati davanti ad una televisione violenta e priva di contenuti. Il carattere di formazione della pellicola di Molina, in questo senso, appare cristallino, veicolando una morale alquanto banale, al giorno d’oggi. Ma proprio nell’attualità del contenuto si riscontra l’elemento più interessante del film, che tratta un argomento arcinoto cercando di entrare nell’innocenza e nell’ingenuità di uno sguardo infantile e quindi, si presume, incorrotto. Tuttavia, lo stile della narrazione è altalenante e spesso troppo poco credibile. La trasformazione di Alex, ad esempio, avviene in maniera ripida, netta, senza alcuna preparazione graduale. Si assiste ad uno zapping della durata di un lungometraggio, le immagini, che modificano il carattere del ragazzino e che insieme preparano lo spettatore alla svolta, scorrono senza interruzione. È come se Molina, consapevole dell’importanza del tema da trattare, avesse fretta di raggiungere quel momento, senza preoccuparsi di altro. Ma quello che più di tutto fa storcere il naso in un film comunque godibile, è il modo in cui la macchina da presa si focalizza sull’ottimo Fergus Riordan, escludendo tutto il resto attorno. Il cambiamento di Alex è imprescindibile dalle caratteristiche delle persone che, involontariamente, lo hanno causato, e invece i genitori del ragazzo – interpretati da Andrew Tarbet e Jo Kelly – rimangono confinati ai margini della pellicola, incapaci di reagire anche quando il loro primogenito appende stendardi e simboli che inneggiano al razzismo e alla violenza gratuita.