I film più interessanti visti al 31mo Fescaaal, storico festival che porta a Milano il meglio del cinema da Asia, Africa e America Latina
Il 31mo Fescaaal, storico festival che porta a Milano il meglio del cinema da Asia, Africa e America Latina, si è appena concluso con un ex aequo: nella categoria principale – Finestre sul mondo – vincono Soula di Salah Issaad e Amparo di Simon Mesa Soto. Il pubblico premia invece El arbol rojo di Joan Gòmez Endara.
Un’edizione tornata finalmente in presenza che vale doppio, dato che riapre il cinema Arlecchino, storica sala milanese che diventa nuovo polo festivaliero e di cinema d’essai. Film d’apertura con un nome importante come quello di Robert Guédiguian, ma è purtroppo una delusione: un (troppo) lungo Twist à Bamako in un’Africa, di belle facce e buoni sentimenti, un po' tarocca e hollywoodyana.
In Soula una giovane donna stordita dall’alcol, prima di riprendere la sua bambina, passa una notte terribile all’interno di una macchina. Ritratto di un’Algeria dei nostri giorni violenta, ancora arretrata e maschilista, per una storia ispirata a vicende vissute dalla protagonista stessa: personaggi ben diretti in un film notturno e claustrofobico, serrato e quasi balcanico, che sconta però il basso budget e un finale importuno.
Decisamente meglio con Amparo del colombiano Simon Mesa Soto: storia di una madre sola contro tutti per sottrarre il figlio diciottenne all’esercito, che lo ha assegnato ad una zona particolarmente calda del paese. Il cinema sudamericano canonico - nei suoi temi e personaggi – per un esordio già maturo e sicuro, asciutto ed efficace nella regia e nell’interpretazione della protagonista.
Viene dalla Colombia anche El arbol rojo (L’albero rosso), nel quale ritroviamo un contesto difficile con tanto di rapimento a opera delle Farc. Colombia, 1999: dopo la morte del padre, Eliécer scopre che l’anziano genitore, inguaribile casanova fino all’ultimo, gli ha lasciato una sorellina della quale ora dovrà prendersi cura. L’uomo però, un cinquantenne solitario, taciturno e squattrinato, non è pronto ad una tale responsabilità: decide dunque di partire in cerca della madre della bambina per affidarla a lei. Sulla strada incontra il giovane Tono, mezzo pugile mezzo imbranato, che si unirà ai due per trovare un passaggio; tra avventure, imprevisti e canzoni alla gaita (lo strumento suonato da Eliécer), i tre viaggeranno dal nord del paese alla volta di Bogotà.
Ci sono tutti i clichè del road movie, a partire dall’improbabile terzetto che, dalla diffidenza e antipatia reciproche, finirà per diventare una specie di famiglia (quella che non hanno mai avuto, non hanno più o hanno avuto troppo poco).
È proprio uno dei film meno originali e imprevedibili del festival a rivelarsi uno dei più belli: se è vero che i sudamericani il road movie ce l’hanno nel sangue, non fa certo eccezione Joan Gòmez Endara, che in una lussureggiante Colombia insegue tre adorabili personaggi ai quali ci si affeziona in fretta e a lungo. Un film sul perdersi e ritrovarsi che scalda il cuore, un viaggio alla ricerca delle proprie radici e di quell’albero rosso che magari esiste davvero.
Viene però dal Vietnam il film più convincente visto a questo 31mo Fescaaal, anche se non porta a casa premi: è Children of the Mist della giovane Diem Ha Le.
Nata in un piccolo villaggio rurale nel nord del paese, la regista vi fa ritorno per seguire la vita di un gruppo etnico minoritario. In questo angolo di mondo sperduto tra i monti, vigono ancora arcaiche tradizioni difficili da conciliare con la modernità del villaggio globale: una di queste è il “rapimento della sposa”, sorta di barbarica fuitina della quale è preda una adolescente di nome Di. Ma la ragazzina, che ha un carattere forte e determinato, ha avuto un’istruzione e ha visto sui social come vivono le sue coetanee, proprio non ci sta: lotterà con tutta le sue forze per salvare la sua libertà. Dopo essersi guadagnata la fiducia della famiglia di Di, la regista riesce a filmare senza sosta ore ed ore di materiale, dal quale estrarrà poi i 93 minuti che sono la gemma del film.
Un film “irregolare” che sposa il documentario più classico con il cinema del reale nel senso più ampio, forte di una sceneggiatura a posteriori che in fase di montaggio trova una storia perfettamente compiuta a livello narrativo.
Girando con una naturalezza ed una intimità che fanno pensare al cinema di famiglia, Diem Ha Le non si preoccupa di salvarne la spontaneità, lasciando anche che ci si ricordi della camera: che si colpisce, si prova a coprire, si deride: «Da quante tempo ci stai aspettando?», chiede Le dopo essersi appartata. Sono in fondo proprio questi i momenti più intensi, quelli di puro cinema. Speriamo di ritrovarla presto con un nuovo film, intanto grazie per il viaggio.