Guadagnatosi il rispetto del pubblico, prima quello festivaliero e successivamente quello mondiale, grazie al Leone d'Oro per miglior film vinto nel 2009 con l'acclamato esordio Lebanon (presentato alla Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia di quell'anno), l'israeliano Samuel Maoz torna otto anni dopo e prosegue il suo percorso di denuncia grazie a Foxtrot. Cambia il genere (e non di poco) ma non l'oggetto di critica, stavolta sfumata nei toni di satira beffarda. Sempre la stessa guerra, quella che coinvolge Israele e ha coinvolto, in prima persona, il regista e autore stesso: proprio Maoz, infatti, è stato partecipe attivo, come carrista, del conflitto e dell'invasione del Libano da parte di Israele quando aveva appena 20 anni. Tanto Foxtrot quanto il precedente Lebanon sono frutto della necessità di raccontare cosa si è visto, cosa si è vissuto e compiuto su un terreno di battaglia che reporter e mass media contribuiscono solo ad allontanare ancora di più dal mondo occidentale. La peculiarità di Foxtrot è la suddivisione in tre parti che sciolgono il film in episodi e, di conseguenza, in toni: a fare da evento-innesco è l'apprensione, da parte di due genitori, della tragica notizia della morte del loro figlio Jonathan, militare presso il fronte. Il padre architetto, Michael, e la madre casalinga, Dafne, sono avvolti nelle funeree tinte della loro casa, e la morte piomba sulle loro vite. In un secondo atto tanto coraggioso quanto inaspettato, Maoz e la sua macchina da presa si fermano presso un posto di blocco in mezzo al deserto, dove la guerra diventa grottesca messinscena, dove il realismo cede il posto all'allegoria e al simbolismo, dove i tic dei personaggi parlano del loro dolore continuamente represso perché inesprimibile. Si tratta, però, di un cambio di rotta fin troppo drastico, estremamente repentino e probabilmente poco opportuno dati gli intenti e le ambizioni di un film che si pone l'obiettivo di estendere a un pubblico quanto più vasto possibile anche un solo quarto della sofferenza dei protagonisti e di tutti i figli di quella terra, tanto quelli ora morti quanto quelli ancora vivi. Una terra che, al di là di Foxtrot e al di là di quello che vuole rappresentare (le vite di chi è in balìa della macabra danza della guerra), esiste davvero ma che non giunge. Resta bloccata da immagini e colori lasciati a una libera teatralità, esasperata anche fino al terzo atto, dove si fa ritorno - con duplice plot twist, che però non può essere rivelato per non incorrere nello spoiler - negli interni della casa della famiglia in lutto. Difficile stabilire quali siano i limiti e le pecche di Foxtrot. Si può essere combattuti, davvero, nel cercare di comprendere se la straniante leggerezza, la giocondità che progressivamente scorta il film di Maoz verso il metaforico finale possa, in qualche modo, porre un grosso ostacolo tra l'opera e il tanto doloroso racconto che propone. Certo non è possibile parlare di prodotto convenzionale, ma la vera sfida rimane il riuscire a cogliere una sola parte del supplizio di anche uno solo dei protagonisti.