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La siciliana ribelle

23/03/2017 11:00

Angelica Tosoni

Recensione Film,

La siciliana ribelle

Non basta essere siciliani per raccontare la mafia

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Rita vive in un piccolo paese della Sicilia. L’amatissimo padre è un uomo d’onore, ma la bambina ignora di cosa si occupi l’uomo che lei adora. Sotto gli occhi della piccola, il padre viene ucciso e la ragazzina giura vendetta. Passano gli anni e Rita scrive, scrive tutto quello che vede, annota movimenti, segna incontri. Dopo che anche il fratello viene assassinato da Cosa Nostra, la ragazza, ormai diciassettenne, decide di raccontare ogni cosa al procuratore anti-mafia di Palermo. Rinnegata anche dalla madre, è costretta a fuggire dalla Sicilia, protetta dalla polizia: Rita è testimone chiave nel processo che vede imputati i boss più importanti, catturati grazie al suo aiuto, ma non basta. Deve denunciare che anche suo padre e suo fratello sono stati affiliati a Cosa Nostra: lo fa, con coraggio, e con coraggio sceglie il proprio destino.


Non basta essere siciliani per raccontare la mafia, con la sua trasformazione da “amministrazione” latifondista ad affare tentacolare e planetario di droga. Non è sufficiente essere nati in Sicilia per narrare la vicenda umana di chi appartiene a una famiglia mafiosa, perde padre e fratello, giura vendetta e, infine, denuncia i reati paterni. Marco Amenta, il regista de La siciliana ribelle, tenta di costruire un film onesto, ma non vi riesce e cede al richiamo del "messaggio" con risultati contraddittori. La sincerità delle intenzioni viene vanificata dalla volontà di mettere in scena un intreccio che sia “esemplare”. La storia di Rita Mancuso è il racconto di un cambiamento e di un passaggio dall’incoscienza alla consapevolezza. «Per raccontare una storia universale ho scelto di allontanarmi dalla cronaca, dai riferimenti a personaggi reali e dalle somiglianze. I fatti a cui mi sono ispirato sono tanti e sono intrecciati fra loro. Per tutti quelli che combattono Cosa Nostra, Rita è un simbolo, è la storia della resistenza all’oppressione, la storia dell’uomo che lotta contro il destino». Le parole di Marco Amenta, in verità, evidenziano proprio la sostanziale pecca de La siciliana ribelle. Ci sono casi in cui la realtà in se stessa ha valore universale e non è necessario raffreddarla nel simbolo: i fatti, gli accadimenti non hanno bisogno di esegesi o di paradigmi, ma sono lì nella loro crudezza e parlano da sé. Il caso di Rita Mancuso è essenziale, possiede la durezza della verità e non richiede sublimazione o perifrasi. Forse per questo le sequenze più toccanti sono le ultime, quelle che ritraggono Rita Atria (a cui, evidentemente, è ispirata la protagonista), ripresa da familiari e amici. Il desiderio di non essere fedele alla cronaca e di assumere una vicenda umana a emblema conduce a una distanza che allontana le coscienze. C’è troppo nel film di Marco Amenta, e l’eccesso conduce a un impoverimento della portata della pellicola. A tratti, in special modo nell’ultima parte, La siciliana ribelle sembra una fiction televisiva, in cui il sacrificio della protagonista si perde in azioni rocambolesche e in scelte di sceneggiatura davvero discutibili (la scena di sesso, ripresa in modo scontato e ovvio, è totalmente gratuita e inutile). Il montaggio forzato rende i passaggi frettolosi e delude il progredire poco armonico dell’intreccio, rispetto all’inizio in cui l’attenzione all’ambiente sociale siciliano riserva scorci davvero interessanti. Il film non riesce a emozionare e si rivela una promessa non mantenuta. Buona l’interpretazione di Veronica D’Agostino (Rita Mancuso), mentre poco credibile è Gerard Jugnot nelle vesti del procuratore che prende a cuore la sorte della protagonista. Ottima, come sempre, Lucia Sardo (Rosa Mancuso). Peccato, davvero.


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