Il sospetto di Rosemary Woodhouse è che suo marito, con la complicità dei suoi arzilli vicini di casa, abbia fatto un patto con il diavolo: dare suo figlio in cambio del successo e della ricchezza. Sarà vero? È forse uno dei migliori horror psicologici della storia del cinema; un mirabile esempio di suspense, paura, angoscia; un film di genere che ne trascende i limiti per virtù di stile. Nel mostrare il regno del Male Polanski si affida ad una scrittura claustrofobica, sinuosa, quasi perfida ma mai sadica, mantenendo sempre una costante sobrietà nello stile e lucidità nella descrizione psicologica dei personaggi. Sceglie quasi sempre di mettere spavento usando la tecnica del “non mostrare”, iniettando così nello spettatore un’ansia che è frutto proprio dell’impossibilità di vedere cosa c’è al di là del visibile. Nella sesta pellicola di Roman Polanski il mistero è l’elemento principale. La verità è nascosta sino alla fine, utilizzando il celebre dilemma: follia o ragione? Mia Farrow è straordinaria nell’aderire al proprio personaggio: donna sola contro una miriade di difficoltà e ostilità. L’inquietante atmosfera creata dalla regia è un ammirevole esempio di orchestrazione dei contenuti. Avendo imparato la lezione di Hitchcock, il regista dosa ogni ingrediente: suspense, mistero, talento visivo e narrativo, con un gruppo di “cattivi” memorabile e impressionabile. È tipico di Polanski affidare la parte più minacciosa a una Ruth Gordon che si guadagnò anche un Oscar, esemplare vicina premurosa, forse troppo. Con il passare degli anni, Rosemary’s baby è divenuto un classico “film di mezzanotte”, non perdendo nulla in termini di efficacia visiva ed emotiva; anzi, guardando il panorama cinematografico “horror” degli ultimi anni, innesca un’imprevedibile vena di nostalgia.