La vera opera prima, cronologicamente parlando, fu Il Camorrista. Seguì la pellicola che per la prima volta avanzava nei recessi di gioventù, arrancando con voluttuoso incedere nel buio fumoso dei cinematografi, o calpestando i ciottoli polverosi dei vicoli, al suono dei vocianti cortili di paese. Memorie che si affastellano e costituiscono quel passaporto emotivo e caratteriale timbrato con inchiostro indelebile tutte le volte che si espatria da se stessi e vi si fa ritorno con nuove esperienze, nuovi gemiti, altri sospiri. Vennero poi Stanno tutti bene, L’uomo delle Stelle, Malena, Baarìa: ognuno un differente capitolo del proprio personalissimo amarcord intinto delle origini e della sicilianità congenita che parla il dialetto degli aneddoti, dei rumori e dei profumi. In mezzo, ad intervalli regolari, opere sospese come il purgatorio di Gerard Depardieu incastrato tra la veglia e il sonno della mente, o la parabola di Novecento sull’oceano della vita. Il materiale biografico e filmico di Giuseppe tornatore è sempre stato particolarmente generoso. E questo nonostante una carriera poco più che ventennale, nella quale il regista di Bagheria ha saputo dirigere opere distanti l’una dall’altra ma con un assunto spesso comune: il racconto della terra d’origine e del suo alveare di memorie tramandate e distribuite in pellicole autoconclusive, isole circoscritte dai confini del mare e del tempo. Con questo fil rouge, e i contrappunti registici – contraddistinti da uno sguardo sicuro e consapevole – che lo intermezzano, Luciano Barcaroli e Gerardo Panichi tessono un documentario che ha il retrogusto di un saggio lirico e biografico sul cinema, i suoi anfratti, le sue imprescindibili radici estetiche, i metodi, i suoi orizzonti e i suoi tramonti. Che si impone il limite espositivo della conclusione di un ciclo filmico, avvenuta per i due registi con Baarìa, quando in realtà – nei più grandi registi in generale, e in Tornatore nel particolare – ogni pellicola compie un suo proprio ciclo, narrativo, mnemonico, astrale. Universi corali come quelli che un singolo fotogramma, o una fotografia sono in grado di raccontare, e che anche nell’arco temporale del ciclo siciliano, hanno prodotto esempi eterogenei e talvolta eterodossi – Una pura formalità, La leggenda del pianista sull’oceano e La Sconosciuta – qualitativamente ineguagliabili. Vista la riservatezza che da sempre lo contraddistingue, e nonostante l’Oscar del secondo lungometraggio e la prestigiosa nomea internazionale che ne fa uno dei pochi continuatori della tradizione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra (Rossellini, Fellini, Bertolucci), non era verosimile prevedere che Tornatore avrebbe dato il proprio consenso alla realizzazione di un documentario sulla sua opera. E invece il regista siciliano apre le porte del proprio archivio personale e mnemonico ai due documentaristi, offrendo per la prima volta uno sguardo su parte di quel materiale costituito da filmati giovanili in Super 8 e dai numerosi scatti fotografici che quella giovinezza costellano. Si parte da molto lontano per andare a fondo nelle sorgenti di ispirazione riempite da tutti i volti che raccontano storie pur senza parlare, immobilizzati per sempre nell’attimo infinito della celluloide. Dal recupero degli scarti di pellicola, singoli fotogrammi che era solito collezionare Peppuccio da bambino e come lui Totò di Nuovo Cinema Paradiso, da quell’atto di saccheggiare immagini e costruirvi universi onirici attorno, nasce la fenomenologia delle opere di Tornatore – e del cinema tout court – che nella scintilla di una visione spesso traggono vita. Un racconto intenso, un’analisi ponderata e accurata del migliore regista italiano dell’ultimo trentennio, in grado di assecondare, attraverso le voci degli storici collaboratori e di spezzoni filmici, le pieghe emotive degli spettatori che quella poetica amano.