Il lungo periodo di pace del Giappone feudale di metà Ottocento è minacciato dal crudele Naritsugu (Inagaki Goro): fratello minore dello Shogun, è al di sopra della legge, e approfitta della sua condizione di signore feudale per trucidare, violentare e uccidere il popolo come antidoto alla noia. L’alto ufficiale al servizio dello Shogun, l’onorevole Doi (Hira Mikijiro), preoccupato per le conseguenze delle continue atrocità dell’uomo, chiede al samurai Shimada Shinzaemon (Yakusho Koji) di uccidere lo spietato Naritsugu. Shinzaemon recluta a tal proposito i migliori samurai delle scuole del Giappone, il ronin Hirayama (Ihara Tsuyoshi) e suo nipote Shinrokuro (Yamada Takayuki): una dozzina di uomini per preparare al meglio quella che potrebbe essere la loro ultima missione volta al massacro. I tredici dovranno, infatti, tendere un’imboscata a Naritsugu di ritorno dalla capitale Edo, protetto da un numerosissimo esercito di samurai guidati dal terribile Hanbei (Ichimura Masachika), nemesi assoluta di Shinzaemon. Dopo Yattaman e il sequel Zebraman, Miike Takashi si impone all’attenzione dei cinefili e dei suoi numerosissimi fan con uno jidaigeki: film storici di samurai, tanto cari alla tradizione giapponese. Il suo attuale ritorno alla tradizione non è, tuttavia, una novità, anche tra i colleghi del Sol Levante. Il Giappone del nuovo millennio riflette su quelle che sono le proprie origini e la propria storia, per capire la sua nuova identità di paese multiculturale e ipertecnologico, condizione che l’ha portato verso una crisi economica e sociale. Miike stesso, nel 2005, ha rappresentato sulle scene teatrali uno spettacolo in stile kabuki, e il suo confronto cinematografico con la Storia è un remake dell’epica battaglia dei tredici samurai (dodici più un selvaggio “raccolto” lungo il viaggio) contro l’esercito dello Shogun: è la fine di una servitù feudale e l’inizio di una coscienza popolare. Nel film, infatti, la figura dello zio Shinzaemon, maestro della spada e uomo d’onore dello Shogun, fa da contrasto al giovane nipote Shinrokuro, giocatore d’azzardo, che vede la figura del samurai come una costrizione datata, e la missione stessa, come una scommessa allettante. I due uomini, insieme ai loro valorosi compagni, si mettono per la prima volta al servizio del popolo e contro il loro padrone, scontrandosi con quello che è un dovere sacro per un samurai d’onore. La battaglia, dunque, non è solo tra i tredici assassini e il loro signore, ma tra il feudalesimo e una nuova figura di uomo libero di decidere per la propria vita. Miike dimostra con Thirteen Assassins un gran rispetto per la tradizione, rinunciando al suo stile personale per nascondere l’autorialità dietro piani statici e violenza fuori campo (fatta eccezione per uno scavalcamento di campo usato finemente), salvo poi tornare in auge nella rappresentazione della lunga battaglia: un’esplosione di raccordi e coreografie che si sposano con effetti sonori e un ritmo serratissimo che inchioda lo spettatore in apnea alla poltrona. Il cast eccezionale, le location mozzafiato riprese da una fotografia superba, aiutano inoltre a far scorrere le due ore della pellicola, e la pianificazione della suspense è da vero maestro. Qualche battuta “poco zen”, infine, non rovina il complesso di dialoghi che riescono, insieme all’abilità di attori e regia, a raccontare una storia crudele con un distacco, un sarcasmo e un’ironia, tipici del prolifico regista nipponico. 13 Assassini è, nel complesso, un jidaigeki attuale ma che ha rispetto della tradizione, una pellicola seria ma anche divertente, una storia ben raccontata, un’esplosione di sangue, spade e valori che è uno spettacolo pirotecnico.