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Cannibal Holocaust (1980), la recensione del film estremo di Ruggero Deodato: chi sono i veri cannibali

24/08/2023 22:00

Marco Filipazzi

Recensione Film, Cinema Estremo, Film Horror, Film Italia, Film Estremo, Ruggero Deodato, Luca Barbareschi,

Cannibal Holocaust (1980), la recensione del film estremo di Ruggero Deodato: chi sono i veri cannibali

Ciò che rende Cannibal Holocaust uno spartiacque è il fatto che non si limita a mettere in fila sequenze shock, ma convince lo spettatore che sia tutto vero.

Nel 1962 arriva in sala Mondo Cane, un documentario che porta sullo schermo alcuni spaccati di culture vicine e lontanissime, mettendo a confronto la società moderna (soffermandosi in particolar modo su Italia e Stati Uniti) con quella indigena delle tribù della Nuova Guinea.

 

È solamente il primo titolo di quello che diverrà un vero e proprio genere (fieramente tricolore) noto come Mondo movies, che imperverserà nelle sale per più di un decennio.

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Nella seconda metà degli anni ’70, i film Mondo vengono assimilati a un altro filone che è orgogliosamente italiano: quello dei cannibal movie. In questo sottogenere le riprese documentaristiche vengono inglobate in trame standardizzate dove i protagonisti, provenienti dalla nostra società civilizzata, si trovano faccia a faccia con la natura, dispersi nella giungla, in balia dei predatori e soprattutto dei popoli selvaggi.

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Tra i precursori del genere troviamo Umberto Lenzi con Il paese del sesso selvaggio, del 1972; Joe D’Amato con Emanuelle e gli ultimi cannibali, del 1977; Sergio Martino con La montagna del Dio cannibale, del 1978. Ma è un “antipasto”, una specie di prova generale per testare le regole di questo nuovo sottogenere, esplorandone limiti e potenzialità.

Ciò che rende Cannibal Holocaust uno spartiacque è il fatto che non si limita a mettere in fila sequenze shock (come l’uccisione di un roditore, la macellazione di una scimmia o l’emblematico sventramento della tartaruga), bensì riesce a sfocare il confine tra realtà e finzione, spingendo il pubblico a credere che ciò a cui assistendo sia tutto vero. Inoltre ci aggiunge una critica sociale che non emergerà mai più in modo così marcato all’interno dei cannibal movies.

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La storia di Cannibal Holocaust può essere divisa in due parti ben distinte, quasi come se fossero due film complementari. 

La prima è l’antefatto della vicenda e si intitola The last road to Hell, girato in 35 mm come un film canonico: il protagonista è il professor Monroe, incaricato da un emittente televisiva di mettersi a capo di una spedizione di recupero nella foresta amazzonica. Qui quattro reporter, inviati per girare un documentario sulle tribù cannibali, sono scomparsi da più di due mesi. 

 

Accompagnato da alcune guide, il professore si addentrerà nella foresta, tra popoli primitivi e riti tribali, fino a trovare i corpi ormai divorati dei quattro reporter e ciò che resta del loro girato. Tornato a New York, incaricato dalla stessa emittente di curare il montaggio delle bonine ritrovate, il professor Monroe inizierà a visionare i nastri.

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La seconda parte si intitola The green Inferno, è stata girata solo con macchine a mano e pellicola 16 mm, successivamente rovinata con graffi e sfocature per aumentare la sensazione di autenticità. Quelli a cui assistiamo sono i video girati dai quattro documentaristi (la parte più “mondo movies” del film) che ripercorrono il loro viaggio attraverso la giungla verso un destino che lo spettatore già conosce.

 

Sullo schermo vengono quindi mischiati un canovaccio di fiction, un po’ d’improvvisazione degli attori (tra cui un esordiente Luca Barbareschi), effetti speciali creati ad hoc e vere riprese shock, il tutto amplificato da uno stile amatoriale e documentaristico che confonde ancor più il confine tra realtà e finzione.

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Cannibal Holocaust è quindi necessario per far sì che lo stile dei Mondo movie venga inglobato dalla classica narrazione cinematografica, inventando di fatto quello che poi si svilupperà nel found footage, uno dei sottogeneri principali d’inizio millennio.

 

Ma non solo. Per aumentare ancor di più la sensazione che le vicende portate sullo schermo fossero reali, Deodato ci aggiunse un colpo di genio. Gli attori che interpretavano i quattro reporter avevano un curioso vincolo contrattuale: non avrebbero dovuto partecipare a nessun evento legato alla promozione del film. 

 

In altre parole dovevano sparire, per amplificare la leggenda metropolitana che il girato fosse autentico e loro fossero veramente scomparsi nella foresta amazzonica divorati dai cannibali.

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L’operazione funzionò... anzi, sfuggì di mano! Cannibal Holocaust venne sequestrato con l’accusa di essere un’opera contraria a morale e buon costume. Venne aperto un processo e i produttori furono condannati a quattro mesi di reclusione, oltre che a pagare 400.000 lire di multa. E Ruggero Deodato dovette convocare i quattro protagonisti in tribunale per dimostrare che si trattava davvero di una messa in scena ben congegnata.

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Ma al di là dei tecnicismi e della storia produttiva, quello che colpisce di più di Cannibal Holocaust è il messaggio di denuncia che emerge in modo prepotente grazie allo scontro tra il mondo civilizzato e quello “selvaggio”.

 

I cannibali seguono la loro natura, si sentono al sicuro nel fitto della giungla e non danno fastidio a nessuno. Al contrario, vedendo i filmati dei quattro documentaristi, scopriamo che sono tutt’altro che il gruppo frivolo, spensierato e dedito al lavoro che ci è stato presentato nella prima ora di film. Una volta immersi nella foresta, abbandonato ogni contatto con la civiltà, rivelano la loro natura animalesca che non si fanno scrupoli a sparare sugli indifesi, picchiare, uccidere, stuprare e incendiare interi villaggi, il tutto in nome dello show business.

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«Pensi se dei selvaggi le entrassero in casa, distruggessero tutto, appiccassero il fuoco, ferendo lei e i suoi cari. Tutto questo per ricavare un bello spettacolino per accontentare un pubblico che gode nel vedere quell’orrendo massacro. Le sembrerebbe civile? Giustificherebbe chi ci guadagna sopra?»

 

Perché se da un lato i rito tribali di Cannibal Holocaust possono apparirci abominevoli (la sequenza della lapidazione della ragazza incinta, con tanto di asportazione del feto, risulta indigesta ancora oggi), altrettanto agghiacciante è la mancanza di moralità di persone che ai nostri occhi dovrebbero essere civili. 

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Non sono solo i quattro documentaristi che si macchiano di ogni tipo di crimine, ma anche e soprattutto i dirigenti dell’emittente televisiva, che sino all’ultimo si accaniscono a voler portare a termine il documentario per poterlo rivendere e far sì che le due spedizioni nella giungla non siano state investimenti a vuoto. 

 

Il consiglio direttivo non guarda in faccia a nulla, né alla violenza, né alla morte dei quattro reporter: la sua sola preoccupazione è sfruttare il clamore mediatico del momento prima che l’interesse generale si sposti su qualcos’altro.

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«Il programma è di attualità ora. Il mese prossimo sarà già superato». Al di là di tutta la violenza grafica che viene portata in scena, al di là di quanto essa possa essere posticcia o autentica, quello che più colpisce di Cannibal Holocaust è il suo messaggio, con quell’ultima frase che suona come un monito rivolto al pubblico.

 

«Mi chiedo chi siano in fondo i veri cannibali». Che poi, di fatto, non è altro che la medesima morale su cui Mondo Cane voleva farci riflettere.


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Genere: drammatico

Paese, anno: Italia, 1979

Regia: Ruggero Deodato

Interpreti: Francesca Ciardi, Luca Barbareschi, Robert Kerman, Gabriel Yorke, Perry Pirkanen, Salvatore Basile

Sceneggiatura: Gianfranco Clerici

Fotografia: Sergio D'Offizi

Montaggio: Vincenzo Tomassi

Musiche: Riz Ortolani

Produzione: F.D. CIN. F.D.

Distribuzione: UNITED ARTISTS - PANARECORD 

Durata: 95 min



 

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