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Baywatch e la sua legge: perchè ci mancano così tanto gli anni Novanta?

10/06/2017 03:09

Aurora Tamigio

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Baywatch e la sua legge: perchè ci mancano così tanto gli anni Novanta?

Intervista a Mattia Bertoldi, autore di "La dura legge di Baywatch": un saggio di cultura 90s

Intervista a Mattia Bertoldi, autore di La dura legge di Baywatch: un saggio di cultura 90s

L'avrete notato, l'ultima tendenza in fatto di revival è riesumare i cari, (ma non tanto) vecchi anni Novanta. I jeans a vita alta, le zeppe, il collarino di plastica nera. Ma non solo, torna anche il 3310. In tv danno I segreti di Twin Peaks, al cinema Power Rangers e Baywatch. Ma ci mancano davvero così tanto gli anni Novanta, e perchè vale la pena ricordare come eravamo? Ne abbiamo parlato con Mattia Bertoldi, classe 1986, autore di un — divertentissimo — saggio di cultura anni Novanta intitolato La dura legge di Baywatch (Booksalad, 2017).

Mattia, perchè raccontare oggi gli anni Novanta?

I tempi erano maturi. Per me era un modo per ricordare quegli anni in modo piacevole. Ne ho letti diversi di libri dedicati agli anni '90, ma soprattutto in inglese: in Italia c'era una lacuna che ho voluto riempire. E poi mi dava un po' fastidio quello spirito nostalgico, anche se in chiave comica, lo spirito del «si stava meglio una volta». Io invece ho voluto citare anche le frustrazioni e le disgrazie del tempo. Mentre i ventenni sono cresciuti nell'idea che «su Internet trovo tutto», pochi anni prima — ma non cento anni prima, solo sette o otto anni prima — le cose erano più complicate. Resta una testimonianza, un racconto della vita e dell'immaginario pop di quel decennio.

 

 

Nell'introduzione al libro tu scrivi di appartenere alla generazione che ha vissuto LA transizione tra un mondo e l'altro, tra l'epoca prima di internet e il Grande Dopo. Quindi, siamo quelli che hanno visto cambiare le cose?

Tante persone hanno visto cambiare le cose ma quello che contraddistingue la nostra generazione è che noi lo abbiamo fatto negli anni di formazione: nella nostra infanzia e adolescenza abbiamo sperimentato un mondo completamente diverso dallo stravolgimento che la tecnologia digitale ha dato alla società di oggi. È molto strano riguardarsi indietro, perchè non sono passati secoli, eppure alcune cose sono state rivoluzionate. Basta guardare le abitudini davanti al piccolo schermo, a come sono si sono evolute dagli anni '90 a oggi.

 

 

Da spettatore, qual è la cosa che trovi più cambiata?

Fino agli anni '90 c'erano appuntamenti fissi, già a partire dal palinsesto. Si potevano vedere telefilm anche per anni e anni di fila sempre sullo stesso canale. Questo comportava due cose. Innanzitutto la fidelizzazione che certi canali davano ai ragazzi. Mi ricordo che qualche anno fa Italia1 ha lanciato questa hospital night, una serata in cui cui venivano trasmesse solo serie come Grey's Anatomy. Non è andata bene, e ci hanno messo poco a spostare quei telefilm in seconda serata oppure su un altro canale. Questo non succedeva negli anni '90, i palinsesti erano più ingessati. La seconda cosa è l'abitudinarietà che avevamo nel discutere certi argomenti. Se martedì sera trasmettevano la puntata di Dawson's Creek, al mercoledì mattina sapevi che in classe si parlava solo di quello. Addirittura mentre la puntata era in corso, durante la pubblicità, ci si telefonava — coi telefoni fissi — per discutere degli sviluppi della trama.

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Che differenza c'è con quello che accade oggi per serie di grande successo come Game of Thrones? Anche oggi viviamo l'attesa.

La differenza è che prima non si poteva scegliere. È vero che oggi nelle serie più seguite c'è chi si attiva subito con le versioni originali (tanti lo fanno anche per evitare gli spoiler) però è una delle possibilità. Altri aspettano. Così come io ho recuperato Breaking Bad e sono riuscito a vedere cinque stagioni in due mesi. Prima se perdevi la puntata eri perduto, come racconto nel libro. Non avevi internet, siti su cui potevi leggere il riassunto, l'analisi, gli screenshot. Questa importanza di stare al passo, se vuoi, ha portato la nostra generazione ad avere pensieri simili e aspettative simili, un immaginario collettivo simile. Vai a trovare oggi 10 persone in un bar che guardano la stessa serie!

 

Oggi stiamo assistendo a un vero revival anni '90. Secondo te è solo un'operazione nostalgia?

Penso che da un lato dipenda dal fatto che quelli cresciuti negli anni '90 sono oggi dei consumatori ambiti. Abbiamo tutti tra i 25 e i 35 anni e disponiamo di un capitale nostro da investire al cinema, ma anche su internet a livello di e-commerce. D'altra parte riportare in auge gli anni '90 ha un effetto rassicurante. In un mondo che cambia rapidamente e che per certi versi ci mette in tensione, affondare le radici nel patrimonio comune di quando eravamo piccoli è un colpo sicuro per le aziende ma anche per noi come consumatori. Mal che vada, possiamo alimentarci di quelle sicurezze che avevamo nell'infanzia e nell'adolescenza.

 

3 cult hanno condizionato la nostra generazione: It, Jurassic Park e Titanic. Secondo te, come hanno fatto questi tre prodotti a radicarsi così nella (nostra) cultura di massa?

C'è stato anche il grosso trend "invasione aliena" con Indipendence Day, che ha ridato vita a questo sottogenere fantascientifico. Penso che il cinema di quegli anni — nel caso di It, la televisione — era sicuramente molto più accentratore. C'erano diverse caratteristiche che permettevano a un film di radicarsi nell'immaginario collettivo. Innanzitutto la permanenza nelle sale. Oggi se esce un film nel weekend e non lo vedo entro mercoledì, ho buone probabilità di non vederlo più; perchè arrivano altri film e i cinema, quando calano gli spettatori, preferiscono dare spazio ad altro. Titanic, se ricordi, è rimasto in sala per mesi. Se ne parlava sui giornali e la televisione amplificava la notizia. Non c'era internet e ci si informava attraverso quei pochi canali, quindi la notizia perdurava per molto più tempo. Questo ha permesso di radicare dei trend che poi sono rimasti a distanza di vent'anni. Oggi è tutto più rapido, si parla di un tema ma il giorno dopo ce n'è subito un altro. Ci vogliono le serie tv, che durano stagioni, anni, episodi, ore su ore, per mantenere fisso un argomento di discussione.

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Uno dei capitoli del tuo libro è dedicato al ricordo dell'anno 1999, la fine del decennio ma soprattutto l'arrivo del nuovo millennio. Secondo te eravamo pronti ai cambiamenti che sarebbero arrivati dopo?

No, non ce ne siamo resi conto subito. L'arrivo del nuovo millennio era percepito come una cosa grande, però nessuno immaginava che ci sarebbe stata un tale progressione di trovate tecnologiche. Il '99 è stato l'addio di un'epoca, questo si sentiva nell'aria, ma ci sono altri che indicano il 2001 come la vera fine degli anni '90, per le ovvie conseguenze che ha portato l'11 settembre. È interessante rifletterci a posteriori ma non so se chi è cresciuto in quegli anni ne avesse già la consapevolezza. Io nel 1999, dopo aver visto Matrix — avevo 13 anni — non è che avessi capito tutto tutto.

 

 

Il tuo libro si intitola La dura legge di Baywatch. In un capitolo racconti dell'importanza che questo telefilm ha avuto nell'immaginario degli anni '90. Innanzitutto, andrai a vedere il nuovo film al cinema?

Ero in Inghilterra quando ho visto le locandine, piuttosto ignoranti. Ma mi piacciono i film che si prendono in giro. Come i Power Rangers: sai la serie tv giocava proprio sugli effetti speciali scarsi, sulle trame tutte uguali. A me piacciono quei film in cui sai cosa compri. Entri al cinema, spegni il cervello, ti aspetti i tributi, ti aspetti gli attori di una volta che fanno il loro cammeo. Ma io sono anche a una preda facile.

Certo che questo film si discosta un po' dalla «dura legge di Baywatch» di cui tu parli. Si è scelto di ridurre al minimo gli aspetti di verosimiglianza ancora presenti nel telefilm per calcare l'immaginario pop: quindi la spiaggia, i muscoli, le corse a ralenti...

Nel libro lo racconto quando parlo di Newman. Ai tempi Baywatch era davvero uno strumento per sensibilizzare le masse sulla sicurezza in mare e in effetti è stato rilevato che dopo l'uscita del telefilm c'è stato un grosso calo delle morti in mare, soprattutto nella West Coast. Ma è vero che oggi Baywatch non si confronta più con quelle necessità ma soltanto con il modello Baywatch, inteso come modello culturale e pop. In questo film mi pare ci si distacchi ancora di più dalla realtà, dalla sensibilizzazione, dall'intenzione originale; però ci si avvicina al gioco, al metaracconto di un mondo, che poi era quello in voga negli anni '90. Chi va a vedere oggi Baywatch al cinema deve farlo con la consapevolezza che non troverà il telefilm ma qualcosa di diverso. Per conto ci sono altre copie in arrivo che si riallacciano più fedelmente all'originale: penso al caso del nuovo It. In entrambi i casi, sarà interessante vedere cosa ne salta fuori.

 

Se siete curiosi di sapere quale sia questa «dura legge di Baywatch» vi consigliamo il libro di Mattia Bertoldi. Soprattutto se siete stati bambini (o adolescenti) negli anni Novanta.

Per maggiori informazioni: La dura legge di Baywatch

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