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The Last Dance (2020), la recensione: un racconto epico dell'NBA di Michael Jordan

28/05/2020 23:27

Lorenzo Bagnoli

Recensione Serie TV, Netflix Original, Film Documentario, Film Sportivo, basket,

The Last Dance (2020), la recensione: un racconto epico dell'NBA di Michael Jordan

Per quanto la sinossi possa dire il contrario, The Last Dance non è affatto la storia della stagione 1997-98 dei Chicago Bulls, la squadra più forte di sempre

 

 

 

The Last Dance è una chanson de geste. Un racconto epico della pallacanestro. 

 

 

Per quanto la sinossi possa dire il contrario, The Last Dance non è affatto la storia della stagione 1997-98 dei Chicago Bulls, la squadra di basket più forte di sempre. E non è neanche, come sostengono certi critici, l'elegia di Michael Jordan, l'uomo che ha trasformato la Nba in un fenomeno planetario. A dirla tutta, non è nemmeno propriamente un documentario come vuol far credere Espn: se lo fosse, avrebbe alcune evidenti lacune giornalistiche. 

The Last Dance è una chanson de geste. Un racconto epico della pallacanestro. Sono dieci ore di emozioni che travolgono tanto chi seguiva la Nba all'epoca, quanto chi quelle gesta le ha riviste solo a posteriori, nei milioni di highlight che inondano YouTube. A renderla la serie più seguita di sempre è stato, però, proprio il narratore occulto di questa storia: Michael Jordan. 

L'onnipotente MJ è riuscito a consegnare ai posteri la sua visione di quella stagione tanto chiacchierata ed è evidente che le scelte registiche e narrative della serie sono passate dal vaglio del numero 23 più famoso dello sport. Si sono spesi centinaia di migliaia di caratteri su siti specializzati al di qua e al di là dell'Oceano per analizzare errori storici, saggiare reazioni, spuntare presenti e assenti, in un bailamme mediatico acuito dall'assenza di sport giocato causa Covid-19. Anche questo ha contribuito a rendere The Last Dance un cult, con buona pace dei suoi detrattori. 

Quella carica di emozioni non sarà cancellata da nessuna polemica al mondo: resterà per sempre nel cuore di ogni appassionato. The Last Dance,“l'ultimo ballo”, è l'espressione che campeggiava sulla prima pagina del manuale della squadra consegnato dal capo allenatore, Phil Jackson, il primo giorno della stagione. Quell'anno a Chicago si respirava un senso di ineluttabile conclusione di un'avventura, a prescindere dai risultati. D'altronde i risultati già erano arrivati, la parte consistente della storia già stata scritta. Mancava quell'ultimo capitolo, che poi si è rivelato essere il più bello. I cronisti annotano che il capolinea era arrivato anche secondo Jackson, l'alchimista che aveva reso possibile la convivenza in spogliatoio tra Michael Jordan e chiunque altro. Fatto sta che queste premesse hanno spinto l'emittente sportiva Espn a registrare in video ogni istante di quella stagione, motivo per il quale The Last Dance ha visto la luce.

 

In quelle centinaia e centinaia di ore di filmati, attraverso il punto di vista principalmente di Michael Jordan, gli autori hanno estrapolato un copione perfetto per una serie, prima di tutto in termini di drammaturgia. Oltre al cattivo Jerry Krause, e all'eroe MJ, c'è l'aiutante, Scottie Pippen, il compagno delle battaglie più importanti che, lasciato solo, non è però stato all'altezza di sobbarcarsi la responsabilità necessarie per vincere. C'è il ribelle, Dennis Rodman, l'indisciplinato compagno di squadra che alla fine ha vinto ancora più titoli del supremo MJ e che forse, alla fine, risulta il vero vincitore di tutta la serie, visto che finalmente gli sono state riconosciute anche le doti cestistiche, al di là del talento per far discutere.

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C'è poi Steve Kerr, l'outsider, l'atleta senza particolare talento che si conquista un posto fra i grandi con la benedizione di Michael Jordan. I personaggi che hanno reso i Bulls grandi sarebbero molti e molti di più (a cominciare dallo stesso Krause) ed è in queste scelte di parte che si vede di più l'intervento di Jordan. Per quanto il ritratto di His Airness, come lo chiamavano i commentatori sportivi negli anni di dominio assoluto, glissi in modo clamoroso sui problemi fuori dal campo, risulta tuttavia onesto nel descrivere la sua ossessione per la vittoria e la sua enorme fatica nel farsi carico della leggenda quando ancora la sua storia era in pieno svolgimento. 

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