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The Fabelmans: Steven Spielberg illumina il crepuscolo del cinema

19/12/2022 20:04

Marco Filipazzi

Editoriale, Approfondimento Film, Film Commedia, Film Drammatico, Steven Spielberg, michelle williams, Paul Dano, Film USA,

The Fabelmans: Steven Spielberg illumina il crepuscolo del cinema

Mentre là fuori è il crepuscolo del cinema, in sala c'è The Fabelmans e Steven Spielberg riesce ancora a farci restare a bocca aperta davanti allo schermo.

Mentre là fuori è il crepuscolo del cinema, in sala c'è The FabelmansSteven Spielberg riesce ancora a farci restare a bocca aperta davanti allo schermo.

Ci stiamo avviando verso il crepuscolo del cinema. O meglio, di un determinato modo di fare cinema. Non sono io a dirlo, perché questo non vuole essere un pezzo d’accusa contro lo streaming imperante, il calo di spettatori in sala o il dominio dei sempre più controversi (nel senso che ormai sono al centro di qualsiasi tipo di dibattito e sembrano l’unica cosa in grado di fare notizia) cinecomics. Questo è un dato di fatto.

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L’industria del cinema sta attraversando un periodo di forte cambiamento da ormai un decennio e il contesto sociopolitico degli ultimi anni, che ha visto nella pandemia il colpo di grazia finale, non ha di certo aiutato.

 

Anche se va ammesso che il canto del cigno della New Hollywood ha iniziato a farsi sentire ben prima del Covid. È un po’ come se gli autori di quella generazione avessero preso coscienza di ciò che stava (anzi, sta) accadendo e siano corsi dietro la macchina da presa per girare il loro testamento cinematografico. Il loro modo di dirci «noi ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta». Ed ecco fiorire una serie di pellicole che solo grandi autori sanno confezionare. E lo dice uno a cui la parola “autore” non è mai davvero piaciuta. Una di queste è The Fabelmans, ma andiamo con ordine.

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I "bei tempi" della New Hollywood

All’inizio degli anni ’60, con l’avvento massivo delle televisioni in ogni salotto d’America, ci fu il primo drastico crollo di spettatori nelle sale cinematografiche. I produttori, dal canto loro, non fecero pressoché nulla per ingolosire il pubblico a pagare un biglietto, seguitando a proporre film sontuosi e teatrali (la Cleopatra con Elizabeth Taylor è del 1963) che avevano poco appeal sul pubblico giovane.

 

Contemporaneamente da Oltreoceano arrivavano produzioni più piccole e meno impegnate, dagli autori della Nouvelle Vague francese ai nostri popolari spaghetti western, in grado di attirare spettatori in sala. Fu un pugno di giovani registi (allora praticamente sconosciuti ed esordienti) a prendere in mano la situazione per cercare di cambiare le cose.

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Innanzitutto puntando sul low budget, su produzioni più piccole e agili (che fecero prosperare anche il cinema indipendente) a cui non servivano grossi incassi per potersi ripagare e dove il regista faceva da centro nevralgico: da qui nacque la figura del filmmaker.  

 

E poi c’erano le storie, che cercavano di scardinare i preconcetti dell’America conservatrice, portando sullo schermo argomenti sino a quel momento considerati tabù eppure all’ordine del giorno anche come notizie di cronaca: l’inquietudine giovanile, l’emancipazione sessuale della donna e la difficoltà di affermarsi nella società maschilista, la condizione delle minoranze, l’opposizione alla guerra. Basti pensare che in molti ritengono il capostipite di questa “new wave” Easy Rider di Dennis Hopper, che nel 1969 era un concentrato di pura controcultura statunitense.

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Tra i massimi esponenti di questa corrente vi sono registi che oggi hanno nomi altisonanti: Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola.

 

Questi autori si sono imposti con le loro visioni, raccogliendo consensi, premi, incassi al botteghino e dando, più in generale, un nuovo impulso alla macchina Hollywood, esattamente com’era nei loro intenti. I signori di cui sopra (principali esponenti del movimento, anche se non gli unici ovviamente) all’epoca erano venti/trentenni colmi di ideali e belle speranze: oggi hanno tutti una fascia di età compresa tra i 75 e gli 85 anni e – oggettivamente - non hanno più voglia.

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Non di fare film, sia chiaro, ma di combattere contro Hollywood come Davide contro Golia: in un’epoca in cui il cinema sta vivendo una fase di standardizzazione, in cui non c’è più voglia di provocare né desiderio di portare al cinema una visione personale e fuori dagli schemi, tutto tende ad appiattirsi e conformarsi. Quello che vediamo - al cinema o in streaming -  è perlopiù la copia sbiadita e insipida di qualcos’altro; sta venendo meno quel senso di meraviglia che è alla base del cinema stesso.

La colpa è in gran parte di noi spettatori che «vogliamo spegnere il cervello vedendo un film», un diritto sacrosanto, per carità, ma ecco a cosa ci ha portati. Domanda: qual è l’ultimo film che avete atteso con smania? Ormai, con la tabella di marcia fissata a 4 uscite all’anno e un numero smodato di serie tv buttate nel mezzo, nemmeno i tanto odiati/amati cinecomic possono più essere considerati eventi cinematografici. 

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Gli ultimi ruggiti dei leoni, da Scorsese a Spielberg

In questo contesto i registi di cui sopra, che negli anni hanno lottato contro Hollywood per essere riconosciuti come autori (ricordiamo che Martin Scorsese vinse l’Oscar per la regia solo nel 2007), pare che si stiano rassegnando. Nonostante i loro nomi ingombranti, hanno difficoltà evidenti a racimolare i budget necessari per realizzare un film e molti di loro mancano allo schermo da anni ormai. Quando riescono a portare una loro visione agli spettatori, essa assume un tono disilluso, crepuscolare, e al sopraggiungere dei titoli di coda si riesce ad avvertire una sensazione di amara in bocca, come se ci stessero dicendo addio.

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Francis Ford Coppola non dirige un film dal 2011 e il progetto su cui è al lavoro, Megalopolis, è in gestazione da 2019, bloccato a causa della mancanza di budget. George Lucas non è mai stato un regista prolifico e ha rinunciato alla sua creatura più sacra in cambio del dio denaro: l’universo di Star Wars in mano a Disney non ha fatto altro che rafforzare il concetto di serializzazione ossessivo/compulsiva.

 

Martin Scorsese ci ha regalato The Irishman: non il suo capolavoro, ma la summa della sua poetica e carriera. David Cronenberg non dirigeva un film da 8 anni e con Crimes of the Future sembra dare un epilogo a tutte quelle tematiche che hanno fatto da filo conduttore alla sua filmografia. Persino Quentin Tarantino, che con la New Hollywood ha poco a che fare, pur condividendone gli ideali, ha omaggiato il cinema che ama (e che ormai non esiste più) con il suo C’era una volta a Hollywood. Ed è così che arriviamo a Steven Spielberg.

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Dal crepuscolo del cinema a The Fabelmans

La scena iniziale del film vede il piccolo Sammy Fabelman in coda al cinema per entrare in sala per la prima volta. Ha sei anni e non sa che quello spettacolo gli cambierà per sempre la vita. «Un film è come un sogno», gli dice suo padre, e infatti la vita del piccolo Sammy non sarà più la stessa. Sammy Fabelman è un ragazzo ordinario che trova nel cinema non solo la propria passione, ma un luogo in cui rifugiarsi quando le cose attorno a lui vanno male: dai continui traslochi per seguire il lavoro del padre al rapporto teso tra i suoi genitori che sfocerà in divorzio, dallo scarso successo con le ragazze alle vessazioni dei bulli del liceo; tutti elementi che, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la vita del regista di Cincinnati, non faticherà a trovare autobiografici.

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Ma il film è perfettamente fruibile anche senza scorgere questo parallelismo. Spielberg, infatti, si spinge oltre e all’interno di questa cornice accarezza ogni genere cinematografico possibile, magari anche solo in una scena, magari condensandolo in una sola inquadratura (è qui che si vede il vero maestro) eppure c’è tutto. Il dramma e la commedia, il teen movie (con tanto di ballo del liceo) e l’avventura, il western e il war movie dei suoi primi film, l’horror e persino il blockbuster apocalittico.

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Attraverso Sammy e nel racconto della sua ossessione per i filmini in Super8 - montati con una moviola nella sua stanza e proiettati nella cabina armadio - Spielberg tira le fila della sua carriera, raccontandoci cosa vuol dire per lui la parola “cinema”.

 

La risposta è definitiva e può essere riassunta in una parola: tutto. Il cinema è un’arma potentissima che può cambiare la nostra percezione del mondo, al punto da nascondere il tradimento di un genitore o far diventare il bullo della scuola un eroe. Il cinema è magia. Il cinema è come un sogno. The Fabelmans è la dichiarazione d’amore di Steven Spielberg ad esso.

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Sì, lo so: ho iniziato parlando di crepuscolo del cinema e finisco parlando d’amore. Ma non è forse, da sempre, questo il talento di Steven Spielberg? Darci una speranza anche quando sembra difficile mostrarsi ottimisti. Riportare la meraviglia, dentro e fuori lo schermo, anche quando tutti gli altri – autori e spettatori – vi hanno rinunciato. Insomma, se è il buio cinematografico che ci attende… speriamo che quando la luce in sala si spegne, lo schermo proietti ancora un film di Spielberg.

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